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LE ROCCE



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Valsaviore Val Malga Val Paghera


da: Minerali e rocce di A. Mottana, R. Crespi, G. Liborio – Orsa maggiore editrice – 1997

LE ROCCE

Le rocce sono aggregati naturali di uno o più mine­rali, talora anche di sostanze non cristalline, che co­stituiscono sulla Terra masse geologicamente indi­pendenti e cartografabili.
La loro descrizione e classificazione forma l’argomen­to della scienza detta Petrografia, la loro interpreta­zione genetico-evolutiva e lo studio termodinamico dei processi che hanno portato al loro aspetto attua­le costituisce il tema delle ricerche di Petrologia

Lo studio delle rocce si basa su metodi tratti dalla mineralogia, dalla geologia, dalla chimica e dalla fisica e richiede, innanzi tutto, l’identificazione precisa dei componenti, cioè dei minerali presenti. Nella maggior parte dei casi le rocce sono eterogenee, costituite cioè da diverse specie di minerali; solo poche sono le rocce omogenee o monomineraliche.
Nello studiare le rocce, oltre alla composizione, è di fondamentale importanza la conoscenza dei rapporti tra i singoli componenti, dalla scala microscopica a quella geolo­gica.
La tessitura di una roccia è l’insieme delle ca­ratteristiche derivanti dalle dimensioni dei componen­ti (grana), dalla loro forma e dal modo in cui essi vengono a contatto tra di loro. La struttura è l’insie­me delle caratteristiche di una roccia a scala geolo­gica e ne descrive quindi soprattutto gli aspetti de­rivanti dalle deformazioni subite sulla superficie ter­restre.
In Italia si tende ancora ad applicare alle rocce magmatiche la nomenclatura originariamente svilup­pata dagli autori tedeschi, per cui la struttura esprime forma, dimensioni e articolazione dei componenti le rocce; la tessitura ne indica la disposizione spaziale come risultato delle forze agenti al momento della cristallizzazione. In questo testo si è preferito seguire il sistema internazionale, più affermato.

Le rocce affioranti sulla Terra derivano, sostanzial­mente, da tre processi chimico-fisici fondamentali:
cristallizzazione da un fuso,
precipitazione da una so­luzione,
ricristallizzazione allo stato solido.

Ciascuno di questi processi ha un suo proprio andamento evo­lutivo e dà origine a tipi diversi per piccole variazioni nelle condizioni o semplicemente perché le rocce at­tuali possono rappresentare uno stadio interrotto (“congelato”) dell’intera evoluzione e quindi essere presenti come relitti rispetto all’ambiente normale della superficie terrestre.

Nella genesi delle rocce bi­sogna quindi prendere in considerazione un quarto processo, molto complesso, che sia comprensivo dello smantellamento delle rocce di ogni tipo e del loro adeguamento alla pressione atmosferica ed alla temperatura superficiale.

IMMAGINI


pozza d'Arno


Arno


Benedetto Avio


Baitone


lago di Campo


Sellero


Scianica


Cedegolo


Grevo


Valsaviore


Saviore dell'Adamello

Il processo magmatico

Le rocce magmatiche (o ignee) sono il prodotto fi­nale del consolidamento di un magma massa fusa di composizione essenzialmente silicatica, ricca di ele­menti volatili, formatasi nelle profondità terrestri per fusione di masse solide preesistenti. La fusione diret­ta dell’involucro terrestre immediatamente sottostan­te alla crosta, sulla quale noi viviamo, cioè il mantello, dà origine al magma primario (o primordiale), di composizione essenzialmente basaltica , dal quale deriva­no per differenziaziono quasi tutte le rocce emesse in superficie durante le eruzioni (rocce vulcaniche o ef­fusive) o iniettate nella crosta a varie profondità (roc­ce ipoabissalì o filoniane).

Invece la fusione profonda di masse di origine superficiale, lentamente sprofon­date per motivi di equilibrio isostatico fino a raggiun­gere la temperatura di fusione di alcune loro porzioni basso-fondenti, dà origine a masse magmatiche o magmi anatettici.
Essi sono fortemente viscosi, per­ché ricchi di componenti ancora solidi legati da una pellicola di fuso, sono scarsamente dotati di possibi­lità di muoversi, oppure si muovono verso l’alto solo come propaggini (apofisi e filoni) limitate e, infine, hanno una composizione non basaltica ma netta­mente granitica.

Questi magmi tendono quindi a ricristallizzare in con­dizioni profonde (rocce plutoniche o intrusive).
Mag­ma primario basaltico e magma anatettico granitico si evolvono con modalità differenti e mostrano scarsa affinità reciproca, benché sia dimostrato speri­mentalmente che da un magma basaltico si può ot­tenere, per cristallizzazione frazionata, una roccia di composizione granitica (il processo inverso non è però possibile).
Anche geologicamente le rocce delle due stirpi tendono a mantenersi separate:
basalti e rocce derivate costituiscono la quasi totalità delle rocce vulcaniche e sono estesi soprattutto sul fondo degli oceani; graniti e derivati costituiscono la mag­gior parte delle rocce plutoniche e sono estesi so­prattutto nei continenti sotto forma di grandi corpi più o meno profondi (batoliti).

Rocce di composizione intermedia tra basalti e graniti, in gran parte dovute a mescolanza tra materiale indisciolto e nuovo mag­ma (rocce sintettiche o ibride) o derivate da situazioni di non raggiunto equilibrio, sono poco frequenti e li­mitate a zone geologicamente circoscritte ed ecce­zionali.

Il basalto primordiale, dopo la sua formazione per fusione parziale della roccia ultrafemica costi­tuente il mantello, o viene direttamente a giorno attraverso fessure profonde ed estese linearmente (ba­salto fissurale, tipico, per esempio, nel Deccan e ca­tena Medio-Atlantica), o si evolve per un processo di variazione chimica (differenziazione), durante il quale dà origine a magmi di composizione via via diversa. A partire dalla temperatura di fusione del basalto (ol­tre i 1200°C), i primi minerali a cristallizzare sono al­cuni metalli nobili (platino), solfuri e spinelli (magne­tite), che costituiscono i cosiddetti componenti acces­sori, non essenziali cioè a definire il tipo di magma.
Seguono poi i silicati ricchi di ferro e magnesio (oli­vine), poi via via quelli contenenti calcio, potassio e sodio e arricchiti di silicio (pirosseni), infine quelli con­tenenti acqua (anfiboli e miche). La serie di reazioni mineralogiche in rocce basaltiche, studiata per primo da N. L. Bowen, è rappresentata da due rami paral­leli: uno è la serie “continua’, che riguarda i feldspati di tipo plagioclasico, ciascuno dei quali, dopo la cri­stallizzazione, reagisce di nuovo col liquido adattando la composizione all’abbassamento di temperatura e passando cosi, in modo continuo, da termini ricchi di calcio (anortite) a termini ricchi di sodio (albite>). Il se­condo dei due rami è la serie “discontinua”, in cui i minerali formati per primi reagiscono a temperatura fissa col liquido e ne vengono totalmente riassorbiti producendo un nuovo minerale, per esempio con la reazione:

olivina — iperstene — augite — orneblenda — biotite.
Il residuo di entrambe le serie, che è composto es­senzialmente da silice, alcali e acqua, cristallizza per ultimo, dando le pegmatiti (rocce costituite da quar­zo, albite. ortoclasio, muscovite e minerali rari) a temperatura attorno ai 600° C. I fluidi residui, essen­zialmente acquosi, producono vene idrotermali, fu­marole ed esalazioni.

La differenziazione può essere interrotta a qualsiasi stadio per azioni meccaniche che portano all’intrusio­ne o all’effusione, cioè a variazioni praticamente im­provvise delle condizioni di pressione e di tempera­tura, con un raffreddamento più o meno rapido della massa, sotto forma di apofisi, laccoliti, filoni o, diret­tamente, di colate laviche. In essi risulta quindi una tessitura porfirica data da grossi cristalli dei minerali preformati in una pasta di fondo pure composta da minerali cristallizzatisi rapidamente, oppure da vetro.

Il magma granitico si forma per fusione differenziale di rocce preesistenti molto più eterogenee, come composizione, del mantello e quindi presenta una sfumatura molto più varia di composizioni. Il tipo di roccia finale si evolve in funzione:

- a) della composi­zione delle rocce di partenza e della loro eventuale eterogeneità;
- b) della temperatura crescente alla quale è avvenuta la fusione (più alta è la temperatu­ra, piu ricca in componenti basici è la roccia);
- c) della durata del fenomeno anatettico;
- d) della disponibilità e della mobilità dei componenti volatili, la cui presen­za favorisce sia la fusione sia l’omogeinizzaziorìe delle masse.

Solo piccole porzioni, in cui si concentrano i gas, acquistano capacità di intrudersi sotto forma di plutoni circoscritti (graniti. sieniti), filoni e ammassi (pegmatiti e apliti) o addirittura di raggiungere la su­perficie terrestre, effondendosi in grandi coltri di ignimbriti e porfidi e, qualche volta, come colate la­viche (rioliti). La maggior parte del materiale rimane in posto, sotto forma di immense strutture profonde sfumanti nelle rocce soprastanti o vicine, che ne ri­sultano permeate (migmatiti).

Le porzioni quasi totalmente fuse, ricche di elementi volatili e con capacità di intrudersi, presentano un or­dine di cristallizzazione in qualche modo analogo a quello delle rocce intrusive di derivazione basaltica, cioè con i componenti accessori per primi (spesso ereditati dal materiale di partenza dell’anatessi), poi quelli poveri di silice e ricchi di ferro e magnesio (or­neblenda, biotite) e infine i feldspati e il quarzo. Data la grande abbondanza di elementi volatili le relazioni tra le singole fasi sono però molto complesse e certe volte persino contraddittorie, fino a dare fenomeni di riequilibrazione che rientrano in parte in quello che viene detto processo autometamorfico. Questo com­porta una serie di ricristallizzazioni di minerali preesi­stenti con formazione di nuovi, tipici di bassa tem­peratura, generalmente ricchi di acqua.


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processo sedimentario

Le rocce sedimentarie, che coprono i 3/4 delle terre emerse, sono il prodotto della trasformazione di roc­ce preesistenti dovuta alla gravità, agli agenti atmo­sferici e agli organismi viventi.
Propriamente, esse sono il prodotto del consolidamento di sedimenti, cioè di materiali sciolti dovuti ad accumulo meccani­co di frammenti più o meno grossolani (sedimenti clastici) o a precipitazione da soluzioni con o senza l’intervento di organismi che fissano i sali dell’acqua (sedimenti organogeni e chimici).

Il processo sedimentario clastico comprende più sta­di. Si inizia con l’alterazione del materiale originario da parte degli agenti soprannominati: ciò porta alla for­mazione, al di sopra della roccia intatta, di un suolo, il cui spessore è funzione del tipo d’agente d’altera­zione, della durata del fenomeno, della natura del materiale e delle possibilità di asportazione dei pro­dotti incoerenti formatisi. Il trasporto avviene comu­nemente in acqua, prima nei ruscelli, poi nei fiumi e infine nel mare (correnti e moto ondoso), ma può es­sere anche dovuto al vento, ai ghiacciai, alla gravità e perfino a organismi. Esso produce in genere una classificazione del materiale in base alle dimensioni, al peso specifico o al chimismo. Nel trasporto in acqua bisogna distinguere il materiale semplicemente roto­lato da quello trasportato in sospensione o diretta­mente in soluzione.

Il terzo stadio del ciclo d’erosione è rappresentato dal deposito ed è il più importante perché imprime al sedimento le caratteristiche tessi­turali definitive. In base all’ambiente di deposito, i se­dimenti si distinguono in continentali e marini.

I primi possono essere subaerei, come i detriti di frana, le sabbie eoliche dei deserti, il loess periglaciale; subac­quei nei tipi: fluviale, costituito soprattutto da ghiaie e sabbie abbastanza arrotondate, lacustre con sabbie, limi e argille, lagunare pure costituito soprattutto da limi e argille con talora intercalati livelli di evaporiti, cioè sali precipitati da soluzioni soprassature, deltizio, formato da materiali diversi molto ben selezionati in ordine di grandezza.

I sedimenti marini sono costituiti da una mescolanza di materiale detritico più o meno grossolano, spesso rimaneggiato, di preesistenti sedimenti continentali con materiale derivante dalla precipitazione chimica o biochimica dei sali contenuti nell’acqua del mare e con residui dell’attività organica presente in tali acque (scheletri, gusci, ecc.). Essi si distinguono, in base alla profondità dell’acqua in cui si sono depositati e alla distanza dalla costa, in pelagici, prevalentemente fini e silicei, neritici, più grossolani, con strutture com­plesse dovute alla circolazione di acque e all’attività degli organismi, e intercotidali, formatisi in delta, lagu­ne, barriere coralline, spesso caotici e solitamente mi­sti a materiale organico.

Il processo sedimentario chimico e biochimico con­siste nella precipitazione, essenzialmente, di sali inor­ganici o di sostanze utili agli organismi per la loro so­pravvivenza. Si tratta soprattutto di carbonato di cal­cio e subordinatamente di fosfato di calcio e idros­sidi di ferro e silice. Il primo precipita sia in ambiente continentale sia, soprattutto, marino, spesso mesco­lato a carbonato di magnesio e a limi silicatici finis­simi, a profondità d’acqua non eccessive. Grande ruolo giocano nella sua fissazione gli organismi ani­mali e vegetali che se ne servono per la formazione dello scheletro, del guscio o di impalcature e dal cui accumulo post-mortem derivano masse stratificate estesissime. Sotto una certa profondità di acqua, il carbonato di calcio si ridiscioglie, per cui i depositi abissali risultano costituiti, quasi esclusivamente, da silice in gran parte dovuta all’accumulo di resti di or­ganismi o alla precipitazione da soluzioni calde di ori­gine vulcanica contenenti anche manganese e ferro (cherts).

I depositi fosfatici e ferrosi hanno invece ori­gine prevalentemente continentale: i primi derivano dall’accumulo di scheletri di vertebrati o di escremen­ti; i secondi da fissazione batterica del ferro in solu­zione nell’acqua delle paludi. Un tipo più raro, ma im­portante, di sedimento chimico è costituito dalle eva­poriti, derivate, come dice il nome, dalla evaporazione di acque salate prevalentemente marine in bacini chiusi, con precipitazione di sali (soprattutto cloruri e solfati di elementi alcalini) che nelle acque normali e in climi non tali da favorire evaporazione rimangono in soluzione.

Lo stadio finale del processo sedimentario è costitui­to dalla litificazione, cioè dalla trasformazione del se­dimento sciolto in roccia coerente per eliminazione dei vuoti intergranulari; questo avviene sia per sem­plice compattamento, sia per precipitazione chimica di un cemento legante i granuli detritici. Questo sta­dio si completa con la diagenesi, una ricristallizzazione parziale dovuta alla pressione di carico dei sedimenti soprastanti, alla dissoluzione e allo scambio chimico selettivo operato dalle acque congenite, che spesso porta alla formazione di rocce di composizione par­ticolare (per esempio, le dolomie).


passo Gozzi (Salarno/Miller)


lago Dosazzo


lago Dosazzo


lago Dosazzo


lago Salarno


chiesetta del Benedetto


chiesetta di Salarno


chiesetta del Venerocolo


chiesetta di Valgrande

Il processo metamorfico

Il metamorfismo è il complesso delle reazioni chimi­co-fisiche, allo stato solido, con le quali una roccia di qualsiasi tipo si adegua a un nuovo ambiente.
Ciò a causa di quei cambiamenti di posizione sulla crosta terrestre che vanno sotto il nome di fenomeni geo­logici (diastrofismo). Ogni roccia magmatica o sedi­mentaria è infatti in equilibrio solo con un ristretto campo di temperatura e pressione, molto elevato per le prime, molto basso per le seconde (condizioni at­mosferiche). Appena dunque essa si trova in una si­tuazione diversa, tende a modificarsi verso un’asso­ciazione mineralogica che la porti in equilibrio con i nuovi valori di temperatura e di pressione: cioè ricri­stallizza. Se, per esempio, un filone di diabase e un’argilla vengono a trovarsi insieme sepolti sotto circa 3000 metri di sedimenti (con un valore di pres­sione uguale a 1 kilobar e una temperatura di circa 450° C), entrambi ricristallizzeranno. Nel diabase il plagioclasio e il pirosseno, che si erano formati a cir­ca 1000° C in assenza d’acqua, si trasformeranno in altri minerali di minore temperatura; nell’argilla, che è costituita da minerali tipici di pressione atmosferica, si otterranno minerali di pressione e temperatura piu alta, con perdita d’acqua che andrà a diffondersi nel diabase. Si avrà cosi, da questo, un cloritoscito, com­posto da albite e clorite; da quella una fillade, forma­ta da clorite, muscovite e quarzo. Solo la presenza di relitti mineralogici e strutturali permetterà allora di ri­conoscere le rocce di partenza. Per l’argilla il meta­morfismo, che ha dato luogo a minerali di più alta temperatura e pressione, avrà agito in modo progra­do, per il diabase retrogrado (diaftoresi).

Comunemente il metamorfismo avviene durante lo sprofondamento delle masse rocciose superficiali nella crosta profonda per il solo effetto dell’aumento della temperatura, dovuto al gradiente geotermico, e della pressione, dovuto al peso dei sedimenti sovrap­posti metamorfismo di carico). Spesso però entrano in gioco pressioni tangenziali causate dai movimenti differenziali di masse geologiche in perpetuo moto nella crosta (metamorfismo regionale). Le reazioni che caratterizzano questi due tipi di metamorfismo sono del tipo solido-solido, cioè avvengono senza grande influenza delle soluzioni acquose congenite nelle roc­ce di partenza, se non per il fenomeno secondario della disidratazione, Le rocce che si formano hanno tessitura chiaramente legata alla presenza di tensioni orientate e sono caratterizzate da un appiattimento generale dei minerali o da crescita preferenziale di minerali lamellari; i minerali prismatici tendono invece a disporsi parallelamente alla forza agente. Si otten­gono, nel primo caso, strutture scistose; nel secondo lineate, entrambe spesso accompagnate da pieghe. Oltre una certa temperatura la disidratazione arriva al punto di favorire la scomparsa di minerali scistosi idrati (per esempio, la muscovite) e la cristallizzazione di nuovi minerali anidri e non lamellani (per esempio, feldspato potassico), per cui si perde la scistosità e si generano rocce più massicce, tabulari o occhiadine, ma ancora divisibili in banchi, cioè a tessitura gneis­sica. In presenza di acqua residua, l’aumento di tem­peratura e di pressione può portare fino alla rifusio­ne, più o meno contemporanea, di feldspato potas­sico, quarzo e albite, dando luogo a un magma ana­tettico di composizione granitica che impregna la roccia madre come venule, straterelli pieghettati e chiazze (neosoma) sparsi tra parti preesistenti non fuse (paleosoma): si avrà una roccia mista detta mig­matite, Poi, coll’avanzare del processo, il neosoma aumenta come quantità relativa al punto da predominare e conferire alla roccia una nuova mobilità, tra­sformandola in una vera e propria magmatite pluto­nica: il granito d’anatessi.

Un tipo completamente diverso di metamorfismo si ha quando una massa magmatica di alta temperatu­ra (anche un’apofisi di granito d’anatessi che risale) investe rocce metamorfiche o sedimentarie o, più ra­ramente, magmatiche preesistenti. Si hanno condi­zioni di alta temperatura e di pressione in genere piuttosto bassa, che facilitano l’espulsione dei com­ponenti volatili della roccia incassante e la loro infil­trazione per una distanza più o meno grande dal punto di contatto (aureola). Si formano allora minerali di alta temperatura, spesso in grandi cristalli perché la crescita risulta facilitata dal trasporto di materia nel flusso gassoso in movimento. E questo il termo­metamarflsmo o metamarfismo di contatto che, se in­dotto da magmi già ricchi in gas rari, può dare ma­gnifiche cristallizzazioni di minerali non comuni e, ta­lora, anche concentrazioni minerarie utili (skarn).

Molto più comuni, ma molto più localizzate, sono le condizioni del metamorfismo cataclastico, che si veri­fica allorché due masse di roccia si muovono l’una ri­spetto all’altra per effetto di spinte geologiche: esso porta alla formazione di zone più o meno minutamente fratturate, fino a produrre vere e proprie rifu­sioni dovute al riscaldamento d’attrito (miloniti, tachi­liti).
Del tutto eccezionale è il metamonfismo d’impat­to, provocato

da meteoriti che colpiscono la super­ficie terrestre.

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Il ciclo petrogenetico

Dalla formazione di magma basaltico primordiale, per fusione parziale del mantello, alla rigenerazione di magma anatettico granitica nella profondità della crosta, si compie l’intero ciclo petrogenetico, a cui sono sottoposte, in modo più o meno completo, tut­te le rocce terrestri. Ne costituiscono stadi possibili e successivi l’intrusione e l’effusione del magma, che comprende l’intero processo magmatico.

Lo smantel­lamento delle rocce che si sono formate e la ridepo­sizione dei prodotti di questa fase sedimentaria, la ri­cristallizzazione metamorfica via via più avanzata fino alla formazione di migmatiti e di rocce plutoniche anatettiche.
Il fatto che, dal basalto iniziale, si arrivi a un granito come risultato finale indica che parte del materiale chimico generatosi nel mantello non com­pleta il ciclo.
Esso va a costituire l’atmosfera e l’idro­sfera e, in parte, resta permanentemente in superficie come rocce sedimentarie residuali.
Se il ciclo non avesse questa parte residua, non si sarebbero forma­te, fin dall’inizio, nè un’idrosfera e un’atmosfera nè, successivamente, i continenti e, tanto meno, la vita.


santella in Valgrande


Aviolo


val d'Avio


Aviolo


Aviolo


Aviolo

RICONOSCIMENTO E STUDIO DELLE ROCCE

Le rocce sono aggregati di minerali: pertanto condi­zione necessaria per il loro riconoscimento è l’iden­tificazione delle specie mineralogiche che esse con­tengono. Questa, però, non è condizione sufficiente:

infatti bisogna anche determinare in che rapporto stanno i minerali tra di loro, sia dal punto di vista dell­a quantità, sia da quello delle relazioni spaziali e dei contatti reciproci. In altri termini, per riconoscere con precisione una roccia si rendono necessari studi ap­profonditi schematizzati secondo questo ordine:

- 1) identificazione del numero e del tipo dei minerali pre­senti;

- 2) determinazione delle loro relazioni spaziali, cioè della forma, della grana, dell’orientazione reci­proca e del tipo di contatti, proprietà che nel loro in­sieme definiscono la tessitura della roccia;

- 3) deter­minazione dei rapporti quantitativi tra i minerali (modo della roccia) ed eventualmente:

- 4) determina­zione della composizione chimica dell’intera roccia e suo ricalcolo, secondo particolari procedure, in una serie di componenti virtuali (norma), il cui significato sta nel permettere un confronto attraverso sistemi chimici artificiali e semplificati (sistemi modello) di in­terpretazione ormai chiara.

Tutte queste operazioni si possono svolgere su piccoli campioni e in laborato­rio, ma non sempre definiscono con sicurezza asso­luta la natura della roccia.
E’ necessario allora inte­grarle con osservazioni sul terreno inerenti alla strut­tura della roccia, cioè all’insieme delle caratteristiche in grande che essa ha acquisito nel corso della sua evoluzione per effetto degli agenti geologici (per esempio, tipo di stratificazione, alternanze, pieghe e faglie, ecc.).

L’identificazione delle specie mineralogiche costituen­ti una roccia è spesso possibile direttamente sul ter­reno a occhio o con l’aiuto di una lente.
Nel caso di rocce a grana fine o finissima e per quelle contenenti vetro, bisogna ricorrere al microscopio da mineralo­gia, ai metodi a raggi X o ad altri metodi possibili solo in laboratorio.

Anche le osservazioni sulla tessitura e la determinazione del modo sono, in molti casi, possibili sul terreno, soprattutto per rocce a grana grossa e quando si è raggiunta una certa pratica; ma sono molto più facili al microscopio facendo uso, in particolare, di sezioni sottili.
Queste sono fettine di roccia ridotte, per abrasione, a uno spessore di circa 30 micron, in modo che quasi tutti i minerali risultino trasparenti e si possa procedere a quella serie di os­servazioni ottiche che sono state descritte nella parte mineralogica e che, di norma, consentono di identi­ficare la specie o, almeno, la famiglia di appartenenza di ciascun componente.
Il microscopio da mineralo­gia risulta quindi lo strumento essenziale nello studio petrografico delle rocce, non sostituito, per ora da nessun altro sistema.
Esso può essere usato anche in combinazione con un tavolino traslatore e un conta­puntì per la determinazione esatta del modo, effet­tuata su una o più sezioni sottili dello stesso campio­ne in modo che il conteggio finale risulti sufficiente­mente rappresentativo dell’intera roccia (in genere 2000-3000 punti, cioè 2000-3000 granuli identifi­cati e contati).

Sempre al microscopio può essere aggiunto un accessorio detto tavolino universale (o tavolino di Fedorov), con il quale si possono effet­tuare misure ottiche di grande precisione atte a con­sentire un’esatta identificazione delle specie minera­logiche, ed è anche possibile misurare esattamente l’orientazione dei singoli granuli rispetto al piano de­finito dalla sezione sottile precedentemente orientata in campagna.

Solo occasionalmente, per rocce a gra­na molto fine o molto grossa, occorrerà eseguire un’analisi chimica, casi da confrontarne il chimismo (globale o semplificato) con schemi precostituiti se­condo una classificazione organica (tipi magmatici di Nigli, norme CIPW, diagrammi binari, ternari e più complessi, ecc.). Ciò si rende soprattutto necessario per rocce contenenti abbondante componente vetro­sa di composizione molto complessa e spesso varia­bile da punto a punto, per le quali è inapplicabile la classificazione modale.

Analogamente l’analisi chimica è utile per classificare rocce definite da minerali di composizione complessa, non ricostruibili con esat­tezza sulla base delle sole proprietà ottiche (anfiboli, pirosseni, feldspati, ecc.).
Nelle rocce a grana grosso­lana, l’analisi chimica può risultare più rapida ed ef­ficiente dell’analisi modale, che dovrebbe essere ese­guita su un numero eccessivo di sezioni sottili per ri­sultare rappresentativa.
Alcune rocce, a grana ecce­zionalmente grossa o costituite da zone eterogenee, possono essere classificate solo in base a osserva­zioni strutturali di campagna, alla scala dell’affiora­mento o di un intero versante.

E' questo il caso delle migmatiti o di certe brecce poligeniche per le quali non sono sufficienti i consueti campioni dalle dimen­sioni di 10X5X3 cm e neppure, talvolta, lastre grez­ze o lucidate di uno o due metri quadrati.
Possono costituire un utile elemento diagnostico altre proprie­tà di solito non misurate nelle rocce, come il peso specifico e quello di volume, il colore, il sapore, l’odo­re, la compressibilità, la radioattività e anche il tipo di giacitura ricostruibile sulla base delle carte geologi­che soprattutto di dettaglio.

Queste ultime proprietà risultano spesso fondamentali nello studio geotecnico delle rocce, cioè servono a determinare la possibilità di impiego di una roccia per scopi edilizi.
Infatti al­cune rocce, anche se sono compatte e di piacevole aspetto, non possono essere impiegate se non in condizioni ambientali del tutto particolari.
Per esem­pio, le rocce evaporitiche, come l’anidrite, compatte, massicce e resistenti in clima arido, non possono es­sere usate all’esterno in zone umide perchè la loro solubilità le rende facilmente plastiche e deteriorabili in superficie.

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CLASSIFICAZIONE DELLE ROCCE

Sulla base del processo di formazione, le rocce si di­vidono in tre grandi gruppi (magmatiche, sedimenta­rie e metamorfiche), ciascuno dei quali è ulteriormen­te suddiviso secondo vari criteri, purtroppo non an­cora accettati da tutti, perché in gran parte eteroge­nei.
Una certa uniformità di vedute è stata raggiunta per le rocce magmatiche, sulla base di un criterio mi­neralogico quantitativo, ma molto resta da fare per quelle sedimentarie e, in minor misura, per quelle me­tamorfiche, nelle quali il criterio strutturale-tessiturale sembra avere più importanza di quello puramente mineralogico.

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Rocce magmatiche

Una prima suddivisione di queste rocce è fatta su basi di ambiente geologico (profondità di messa in posto), a cui corrispondono diverse condizioni di pressione esercitantesi su di esse al momento della cristallizzazione. Si distinguono quindi in:

- a) intrusive (o plutoniti), cristallizzate lentamente, in profondità, sotto una pressione tale da non permet­tere la fuoriuscita dei gas magmatici;

- b) ipoabissali (o filoniane), cristallizzate a profondità intermedie, in genere sotto una pressione sufficiente a non fare sfuggire troppi gas, ma in modo rapido, data la conformazione e le dimensioni limitate dei corpi geologici (filoni, apofisi, laccoliti);

- c) effusive (o vulcaniti), cristallizzate in superficie, sot­to pressione atmosferica, per cui risultano degassate, e raffreddate in tempi molto brevi e quindi, in parte più o meno rilevante, ancora vetrose.

Rocce intrusive ed effusive sono poi classificate con un criterio modale, rigoroso per le prime, ibrido per le seconde perché tiene conto anche della norma, laddove la grana fine e la presenza di vetro ostaco­lano la determinazione mineralogica precisa.
Anche le rocce filoniane sono classificate su basi miste chimi­co-mineralogiche, essenzialmente riferendosi alle roc­ce intrusive di analogo chimismo e dando poi nomi particolari alle varietà caratterizzate da qualche mine­rale.
La classificazione modale internazionale delle rocce eruttive intrusive ed effusive si basa sull’indice di colore M (percentuale volumetrica di minerali co­lorati, comprendente anche quelli opachi e non silica­tici, come i carbonatil.

Tutte le rocce con M maggiore di 90 (cioè con oltre il 90% di minerali colorati) sono dette ultramafititi (campo 16) e sono differenziate sulla base del minerale predominante (orneblendite, piros­senite, carbonatite, ecc.).

Quelle con M inferiore a 90 sono classificate sulla base della percentuale relativa dei tre componenti: feldspato alcalino A (ortoclasio, mi­croclino, sanidino, albite, ecc.), plagioclasio P (oligo­clasio, ecc., fino ad anortite) e, a seconda dei casi, quarzo Q, oppure feldspatoide F (nefelina, leucite, analcime, sodalite, ecc.), dato che questi minerali sono tra loro antitetici.

Ad ogni campo così definito corrisponde un nome, a cui può essere aggiunto un aggettivo basato su uno o più minerali caratteristici o sull’indice di colore basso (leuco-) o alto (mela-)che, nel complesso viene osservato.
Ulteriori specifi­cazioni concernono la tessitura, che può essere equi­granulare o porfirica, o parzialmente vetrosa, e la struttura, che può essere isotropa, orientata e, talora, anche vacuolare, orbicolare, zonata, scoriacea, ecc.


Val di Fumo


Val di Fumo


Val di Fumo


Val di Fumo


Val di Fumo


Val di Fumo


Val di Fumo

Rocce sedimentarie

Queste rocce sono classificate non tanto in base al processo di disgregazione delle rocce preesistenti da cui derivano, quanto al meccanismo di deposito che è responsabile della loro tessitura e struttura finale.
Tralasciando quindi i sedimenti incoerenti, esse si di­stinguono in:

- a) detritiche (o clastiche), costituite da frammenti (clasti) di rocce di ogni tipo depositatisi dopo aver subito un certo trasporto; l’ambiente di deposizione (fluviale, marino, continentale, ecc.), che è responsa­bile del tipo di materiale cementante, cioè della fra­zione fine che le rende coerenti, non ha importanza nella loro classificazione, che si basa sulla dimensione dei clasti;
si distinguono quindi in ruditi (o psefiti), se i clasti sono granuli grossolani (diametro minimo maggiore di 2 mm), areniti (o psammiti) a clasti me­dio-fini (diametro compreso tra 2 e 1/16 di mm), lutiti (o peliti) se la grana è fine o finissima (diametro inferiore a 1 / 16 mm);
tra queste tre classi le ulteriori suddivisioni tengono conto ancora delle dimensioni, come pure del grado di arrotondamento dei granuli e della selezione operata dall’agente di trasporto sul materiale di partenza; hanno quindi importanza la composizione dei granuli, la percentuale di matrice e cemento e la composizione mineralogica del cemen­to stesso (calcareo, siliceo, ecc.);

- b) chimiche, costituite, in prevalenza, da sali e colloidi precipitati dalle soluzioni acquose per effetto dell’evaporazione o di un cambiamento di ambiente chimico dovuto, per esempio, a mescolamento im­provviso con gas o soluzioni vulcaniche;
ulteriori sud­divisioni si basano sulla composizione chimica dei precipitati, che possono essere carbonatici (calcite, dolomite), silicei (calcedonio, quarzo), ferriferi, manga­nesiferi e infine salini (salgemma, gesso, anidrite, ecc.), generalmente raccolti sotto il nome di evaporiti per­ché derivati dall’evaporazione di acque in bacini chiu­si come lagune costiere e laghi salati;
al gruppo delle rocce chimiche vengono attribuite anche le rocce re­siduali, porzioni insolubili rimaste in posto dopo il di­lavamento di rocce preesistenti (laterite, bauxite, ar­gille) e le rocce metasomatiche, dovute ad una reazio­ne di scambio tra le acque del mare e rocce sedi­mentarie di varia natura (dolomie), che, il più delle volte, avviene con apporto di magnesio;

- c) organogene (o biochimiche), derivate dall’accumulo di sostanze di origine organica (gusci, scheletri, vegetali); anch’esse vengono distinte in base al chimismo in carbonatiche (calcite, dolomite), silicee, ferrifere, fo­sfatiche (collofane, apatite) e carboni fossili (torba, li­gnite, litantrace e antracite);
nella classificazione delle rocce, soprattutto carbonatiche, si prendono in con­siderazione sia l’ambiente in cui gli organismi costrut­tori sono vissuti (bioerme, benthos, plancton, ecc.), sia il tipo di questi organismi, sia l’eventuale mesco­lanza con materiale detritico e la trasformazione chi­mica subita posteriormente al deposito e prima della messa in posto definitiva;

- d) piroclastiche, comprendenti rocce eruttate nel cor­so di un’attività vulcanica esplosiva come frammenti o come sospensioni di materiale lavico, vetrosa e gassoso e depositatesi in strati che si consolidano in ambiente subaereo (tufo) e subacqueo (tufite), sono quindi a carattere misto tra le rocce magmatiche e quelle sedimentarie: delle prime hanno la composi­zione soprattutto chimica (anche se un po’ modifica­ta), delle seconde il processo di messa in posto e, successivamente, di litificazione.

Come si vede la classificazione delle rocce sedimen­tarie è improntata a un criterio totalmente diverso ri­spetto a quella delle rocce magmatiche.
In essa il cri­terio genetico-ambientale, che si traduce essenzial­mente nelle tessiture e strutture, ha ruolo pnionitanio rispetto a quello chimico. mentre la effettiva compo­sizione mineralogica conta pochissimo.

Rocce metamorfiche

Anche la prima classificazione delle rocce metamor­fiche si basa su criteri genetici, è cioè ordinata dal tipo di azione che ha condotto alla ricristallizzazione della roccia-madre. Solo in modo subordinato si tie­ne conto della natura di quest’ultima distinguendo metamorfiti orto e para, secondo che derivino da roc­ce magmatiche o sedimentarie.

Dopo una prima sud­divisione genetica in contattiti (derivate da termome­tamorfismo), scisti cristallini (derivati dal metamorfi­smo regionale e di carico), miloniti (derivate da me­tamorfismo di dislocazione) e impattiti (derivate dalla pressione e dalla temperatura altissime di un impatto tra una meteonite e rocce terrestri), il fattore fonda­mentale che definisce la nomenclatura di una roccia metamorfica è il grado di ricristallizzaziane, grado metamorfica. Esso è definito dalla presenza di parti­colari minerali-indice o di particolari associazioni di minerali considerate tipiche di un equilibrio chimico-fisico caratteristico (paragenesi).

Molto utilizzato, in particolare, è il concetto di facies, nella quale vengo­no raggruppate tutte le rocce che sono ricristallizzate in un certo ambito di pressione e di temperatura; da esso segue il concetto di isograda, definita come la linea che, in un corpo geologico, riunisce tutti i punti che hanno subito una ricristallizzazione di una deter­minata intensità riconoscibile dalla comparsa o dalla sparizione di un determinato minerale-indice.

Questi concetti permettono di non tener conto della eterogeneità chimica delle metamorfiti, la quale ritorna in evidenza allorché si passa a denominare caso per caso le rocce.
Sono state riconosciute almeno sei di­visioni su basi chimiche, ciascuna delle quali caratte­rizzata da minerali particolari formatisi durante un metamorfismo di grado crescente:

- a) rocce pelitiche, derivate da originari sedimenti pe­litici (argillosi);

- b) rocce quarzo-feldspatiche (sialiche), derivate da originarie areniti feldspatiche e da rocce a composi­zione granitica;

- c) rocce carbonatiche, derivate da calcari e dolomie;

- d) rocce femiche, derivate da magmatiti basiche e da tufi;

- e) rocce magnesiache, derivate da magmatiti ultra­basiche e da certi sedimenti (per esempio quelli a montmorillonite);

- f) rocce ferruginose, derivate da sedimenti ferriferi. Nel corso della ricristallizzazione queste composizioni producono minerali via via diversi, sulla base dei quali si dà il nome alla roccia.
Oltre a questo criterio mi­neralogico modale (che però non ha ancora raggiun­to l’accordo internazionale come per le rocce mag­matiche) si tiene moltissimo conto, nel definire una roccia metamorfica, della struttura.
Cosi un campione composto di quarzo, biotite, plagioclasio, sillimanite e granata potrà essere classificato, a parità di modo come micascisto o come gneiss, secondo che abbia struttura scistosa (caratterizzata dalla rottura in stra­terelli sottili) o occhiadina (con rottura in grossi fram­menti, con il plagioclasio e il granato concentrati in pochi cristalli grossi e tondeggianti).

Analogamente una roccia composta da muscovite, quarzo e grafite potrà essere chiamata fillade o micascisto a seconda delle dimensioni microscopiche o macroscopiche del­le laminette di mica.
Una buona concordanza nella nomenclatura delle rocce metamorfiche, è ben lonta­na da esser raggiunta, tanto più che sopravvivono nomi locali, noti solo a parte dei ricercatori.
Una buo­na conoscenza dei termini relativi alla struttura è quindi ancora indispensabile.

In questo testo si è se­guita la nomenclatura tradizionale, che consiste nell’elencare le rocce in ordine crescente di grado metamorfico, secondo il principio di facies metamor­fica, dopo averle separate in base alle divisioni chi­miche sopra riferite e al tipo di processo metamor­fosante.
Bisogna infine accennare al fatto che la no­menclatura delle migmatiti, che fanno passaggio a rocce magmatiche e sono rocce miste per eccellen­za,in quanto composte da una porzione residuale (paleosoma) e da una rifusa (neosoma), è basata sul criterio tessiturale, cioè sul grado di compenetrazione del neosoma nel paleosoma, con sempre maggiore avvicinamento all’anatessi completa.


Val di Fumo


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RACCOLTA E CONSERVAZIONE DELLE ROCCE

I collezionisti di rocce sono molto meno numerosi di quelli di minerali, ma, non per questo, una raccolta petrografica deve costituire fonte di minore soddi­sfazione.
Sotto l’aspetto scientifico e anche estetico, una collezione di campioni petrografici può avere va­lore ancora maggiore di una di minerali ed è senz’al­tro più facile da organizzare, almeno nelle fasi iniziali, Gli strumenti indispensabili per la raccolta sono sem­plici (mazza, martello, punte e scalpelli), I luoghi mi­gliori di raccolta sono gli intagli freschi, dove non esi­stono patine d’alterazione (cave, miniere, scassi arti­ficiali, frane, ecc.). I campioni devono avere dimensio­ni adeguate alla grana della roccia e ad eventuali ca­ratteristiche da mettere in evidenza.

Il campione, per consuetudine, è modellato a forma di parallelepipedo di 10X5X3 cm. con le due superfici maggiori rego­lari e con bordi rettilinei e smussati, facendo però in modo che non si vedano i segni dei colpi del mar­tello.

E’ sconsigliabile raccogliere campioni e poi sa­gomarli a forma di lastrine, benché alcuni collezionisti preferiscano questo tipo di campione, anche con una faccia lucidata. La identificazione dei campioni si fa con i vari metodi, su un frammento del campione da conservare; ad esso va eventualmente allegata la se­zione sottile. L’archiviazione si effettua con le stesse cure già descritte per i campioni mineralogici, tenen­do presente che quelli di roccia, benché più voluminosi, sono anche meno fragili e possono essere con­servati in contenitori meno raffinati di quelli consigliabili per i minerali.


diga Arno


diga Baitone


diga Baitone


diga Baitone


lago Baitone

LE METEORITI

Le meteoriti sono corpi solidi, provenienti dallo spa­zio cosmica, che cadono sulla Terra. Hanno dimen­sioni molto variabili: da una polvere fine a blocchi di parecchie tonnellate e, durante il passaggio nell’at­mosfera, si riscaldano in superficie per attrito fino a raggiungere la temperatura di fusione.

La loro velo­cità di caduta sulla Terra è molto variabile perché di­pende dalla loro mole, dalla loro traiettoria e da fat­tori d’attrito:
alcune ricadono con bassa energia, sen­za produrre effetti vistosi o danni; altre hanno un impatto violentissima, con effetti simili a quelli di una bomba per un raggio di parecchi chilometri (meteorite di Sikote-Alin, in Siberia) e, talora, esplodono rompen­dosi in numerosissimi frammenti o vaporizzandosi completamente.

Nell’urto si produce una cavità semisferica sulla superficie terrestre (cratere di impatto) che può arrivare ai 12 km di diametro (come a Ries, Ger­mania). L’energia sprigionatasi produce inoltre minerali di altissima pressione nelle rocce colpite (per esempio coesite e stishovite, cioè modificazioni polimorfe della silice) oppure le rende completamente vetrose (ma­skelynite, vetri diaplettici).

Questi fenomeni fanno par­te del metamorfismo d’impatto.

Le meteoriti vengono classificate in base alla compo­sizione mineralogica in aerolitì, mesosiderit siderollti si considerano inoltre meteoriti, o comunque mate­riali connessi a caduta sulla Terra di frammenti co­smici, alcuni vetri particolari detti tectiti.

Le aeroliti, o pietre meteoriche, sono le più comuni tra le meteoriti viste cadere, ma si confondono facil­mente con le rocce terrestri poiché hanno composi­zione mineralogica identica alle ultrabasiti; contengo­no infatti pirosseni (enstatite, bronzite), olivina, pla­gioclasio, prevalenti su leghe ferro-nichel, solfuri e cromite.

Alcune di esse sono a tessitura granulare (acondriti), altre sono caratterizzate dalla presenza di condrule sferule fibroso-raggiate di silicati cementate da minerali opachi (condriti).

Le acondriti sono con­siderate l’equivalente di una crosta di un pianeta esplosa. Le più grosse sono quelle di Nonton (USA), di 1070 kg, e di Juvinas (Francia), di 91 kg. Tra le condriti più grosse ricordiamo quella di Abee (Cana­da), di 107.5 kg, e di Lancè (Francia), di 52 kg. In Italia sono state trovate condriti a Vigarano (Lom­bardia) e a Renazzo (Emilia).

Le mesosideriti sono composte in quantità più o meno uguale da silicati (olivina, pirosseni, plagioclasi) e leghe di ferro-nichel (taenite, kamacite).
Contengo­no come accessori solfuri, fosfati rari e cromite.
Di rado presentano la struttura a condrule e, in super­ficie, hanno aspetto scoriaceo.
A seconda del tipo di silicati contenuti si distinguono in pallasiti (a olivina), siderofiri (a ortopirosseno e plagioclasio), lodraniti (a olivina e pirosseno) e in mesosideriti propriamente dette (a pirosseno e plagioclasio). Le più grosse sono le pallasiti di Bitburg (Germania), di 1600 kg. di Uckitta (Australia), di 1415 kg, e di Brenham (USA), di 1000 kg, mentre rarissime e di dimensioni molto pic­cole sono le lodraniti e i siderofiri.

Le sideroliti, o ferri meteorici, sono le meteoriti più comuni nei musei e nelle collezioni perché sono quel­le più facili da riconoscere anche quando non sono state viste cadere, dato che sono costituite da leghe metalliche di ferro-nichel chiamate kamacite, taenite e plessite (l’ordine corrisponde al crescente contenuto di nichel).
Hanno anche, come accessori, silicati, gra­fite, diamante, troilite e cromite.
All’aspetto sono tut­te masse metalliche nere e lucenti, talora con una crosta bollosa.
L’attacco con acido nitrico su una su­perficie lucidata mette in evidenza sottili striature (“li­nee di Neumann”), tipiche delle esaedriti, ricche di kamacite, oppure lamelle incrociate di taenite e kama­cite, caratteristiche delle ottaedriti (figure di Widmann­stàtten).

Le atassiti sono prive di strutture lamellari perché formate solo da plessite.
Le sideroliti non ar­rivano mai a grandi dimensioni perché esplodono du­rante la caduta:
per esempio, di quelle di Sikote-AIin (URSS) e di Canyon Diablo (Arizona, USA), che pure hanno provocato crateri di più di 1 km di diametro, sono rimasti frammenti pesanti al massimo 70 kg.

Legate alle meteoriti, ma di composizione persilicica, sono le tectiti, vetri di colore nero o verde scuro, contenenti sferule metalliche e cavità bollose, di for­ma discoidale o sferica, con frattura concoide lucen­te, che si trovano tanto in superficie quanto in rocce sedimentarie più o meno recenti.
Sono state trovate in Cecoslovacchia (moldaviti), nelle Filippine (filippiniti, le più comuni), in Australia (australiti), in Indocina (in­dociniti), in Malesia (billitoniti), in Indonesia (giavaiti), ecc.
Per alcuni autori si tratta di vetri vulcanici lunari, per altri di piccole meteoriti fuse durante il passaggio nell’atmosfera terrestre, per altri ancora di gocce di rocce terrestri portate a temperatura di fusione per l’impatto di una grossa meteorite e rimbalzate a grande distanza.

Le meteoriti non hanno importanza pratica commer­ciale, se non come materiale da collezione, ma hanno però grandissimo interesse scientifico perché ci dan­no preziose indicazioni sulla costituzione interna dei corpi celesti.
Su di esse si basa, per esempio, la teo­ria attuale sulla struttura della Terra: il nucleo avreb­be composizione simile alle sideroliti, il mantello pro­fondo composizione simile alle mesosideriti, quello superiore alle sideroliti e la crosta alle tectiti.





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Last updated 17.2.2008