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I disobbedienti nella grande guerra *

di Bruna Bianchi

Il logoramento della vita di trincea, la consapevolezza crescente dell'inutilità dei sacrifici, le promesse di turni di riposo non mantenute, le licenze negate, l'arroganza dei giovani ufficiali e la disciplina durissima, condussero nel corso del conflitto a un desiderio diffuso di ribellione che talvolta sfociò in episodi di disobbedienza individuale e collettiva:

rifiuto di avanzare verso le prime linee, di mettersi in marcia o salire sulle tradotte, imprecazioni contro la guerra, diserzione, gesti di avvicinamento al nemico e, tra gli ufficiali, rifiuto di eseguire azioni destinate al fallimento e di esporre i soldati a perdite eccessive.
Diari, lettere, memorie, documenti giudiziari e manicomiali, hanno consentito negli ultimi anni di accostarci alla complessità delle reazioni individuali alla vita di guerra e di ricostruire in tutta la loro ampiezza le forme di disobbedienza e di resistenza di migliaia di combattenti.


1. I soldati

1.1 La ribellione alla vita di guerra

Com'è noto, gli episodi di ammutinamento e di rivolta furono numerosi e furono per lo più originati dalla richiesta del cambio nel turno di trincea.
I soldati mantenevano un atteggiamento passivo, rifiutando di mettersi in cammino o di salire sui treni e chiedevano di essere mandati a riposo. Accompagnavano il rifiuto grida contro la guerra e i comandi. In molti casi ai colpi di fucile esplosi in segno di minaccia e determinazione, seguivano i tumulti, le barricate sui binari, le aggressioni agli ufficiali.
Oltre al mancato rispetto del turno, talvolta la scintilla della protesta si accendeva in seguito alla mancata distribuzione del pane o delle cartoline. Le rivolte collettive iniziarono a manifestarsi nell'inverno 1915 ad Aosta, Sacile, Oulx, ma già dall'estate 1916, in seguito alle circolari che invitavano alla giustizia sommaria, la certezza della repressione trattenne i soldati dalla ribellione aperta .

Tuttavia, a partire dalla primavera 1917, ripresero a manifestarsi casi di ammutinamento; gli echi degli avvenimenti in Russia si erano diffusi tra le truppe e con essi la speranza nella possibilità di rovesciare i rapporti gerarchici.
L'episodio più grave di rivolta fu quello avvenuto a Redipuglia tra i soldati della brigata Catanzaro.

Nei tumulti che scoppiarono nella notte tra il 15 e il 16 luglio 1917 due ufficiali rimasero uccisi, altri due furono feriti, altri ancora vennero allontanati dai soldati; la rivolta terminò solo dopo molte ore di scontri quando le truppe furono circondate "dagli squadroni di cavalleria, automitragliatrici e autocannoni".
Il mattino successivo furono passati per le armi 28 soldati, di cui 12 per decimazione.
Soldati fucilati sul posto, compagnie disciolte, graduati retrocessi, ufficiali deferiti al tribunale militare, licenze sospese a interi reggimenti, furono i provvedimenti repressivi che impedirono agli episodi di ammutinamento di diffondersi, come invece accadde in Francia nel maggio 1917.

Se dall'inizio del conflitto all'aprile 1917 le fucilazioni senza processo documentate erano state 48, da maggio a settembre 1917 ben 64 soldati furono fucilati per ordine diretto dei comandanti, la maggior parte per rivolta (47).
Lo confermano i dati riportati dal memoriale del generale Tommasi , memoriale steso nell'ambito della Commissione di inchiesta sui fatti di Caporetto e mai reso ufficialmente noto.
Le rivolte individuali e collettive in prossimità delle prime linee cui seguirono fucilazioni senza processo non devono essere considerate tanto circoscritte; i dati riportati dagli allegati al memoriale sono significativi solo di un andamento.

Molte esecuzioni infatti non vennero denunciate sia per la difficoltà di giustificarle sia perché avvenute in combattimento, e probabilmente non conosceremo mai il numero dei soldati abbattuti dai loro ufficiali sul campo perché sbandati o perché si erano rifiutati di avanzare.
Di tali episodi e del loro tragico esito restano poche, ma significative tracce nella documentazione processuale degli ufficiali denunciati per denigrazione.
È il caso di un capitano che fu udito dichiarare:

I soldati italiani non avanzano contro il nemico allorché ne vien dato loro l'ordine dai superiori e occorre spingerli in avanti con il fucile e a ogni ostacolo si fermano e che egli dovette far fuoco sui soldati della sua compagnia, ma questi gli rivolsero contro le armi.

Contemporaneamente aumentarono le condanne a morte eseguite inflitte dai tribunali: da 103 nel primo anno di guerra si passò a 251 nel secondo, a 382 nel terzo.
La disciplina militare feroce, la "tremenda memoria delle esecuzioni ingiuste", lasciarono un segno profondo nell'animo dei combattenti, accentuarono il rancore nei confronti dei comandi, il disgusto per i rapporti disciplinari.
Questi sentimenti si esprimevano quotidianamente in atti di insubordinazione e disobbedienza e in alcuni reggimenti erano divenuti abituali.
Lo ammise un "autorevole e valorosissimo ufficiale" alla Commissione d'inchiesta sui fatti di Caporetto:

Qualche colpo di fucile in aria alla partenza per la trincea era divenuto abituale.
In certi reggimenti ogni segnale di tromba veniva accolto da fischi. Spesso la fine di qualche conferenza di propaganda veniva fischiata. Così continuarono le fischiate […] e di notte in mezzo ai boschi talvolta si udiva gridare: "Vogliamo la pace! Viva la pace! Abbasso la guerra!".

Durante le marce verso le linee accadeva con una certa frequenza che i soldati si rifiutassero di proseguire o che voci isolate che incitavano alla disobbedienza si levassero dal gruppo:
"Questi vigliacchi ci vogliono far morire; io non cammino più.
Si provi lei a farmi fare un passo in avanti" .
Erano grida che rivendicavano il diritto al riposo o frasi di aperta minaccia: "Capitano, sei un vigliacco; pensa a mandare i tuoi soldati in licenza altrimenti se ci porti un'altra volta in trincea, ti faccio la pelle".

Anche le ribellioni individuali furono punite con grande severità.
Le condanne a morte inflitte dai tribunali militari per reati connessi alla disciplina furono 182, di queste ben 154 (84,6%) furono eseguite.
Si tratta della percentuale più elevata rispetto a tutti gli altri reati.
Infatti furono eseguite solo l'11,2% delle condanne a morte inflitte per diserzione (47,8% se non si considerano le condanne in contumacia), il 14,3% di quelle inflitte per mutilazione volontaria e il 61% di quelle inflitte per sbandamento.

Alla fucilazione non si fece ricorso soltanto in situazioni estreme, ma anche per riaffermare i rapporti gerarchici:
soldati indisciplinati e ribelli furono considerati elementi dannosi, da eliminare non soltanto dalle file dell'esercito, ma dalla convivenza sociale.
Ne è un esempio il caso del soldato Paolo Arnoldi, fucilato il 22 agosto 1917.

Dal rapporto informativo che accompagna la notifica della sua esecuzione si viene a sapere che era considerato indifferente, cinico, ribelle, privo di ogni sentimento e che "fu colta l'occasione per eliminarlo".
Più volte ammonito, fu passato per le armi per essersi rifiutato di partecipare a una esercitazione e aver minacciato il suo superiore, un giovane aspirante: "se mi metti le mani addosso ti faccio saltare la testa".

Esemplare anche la condanna a morte inflitta a un vagabondo di Palermo accusato di diserzione in presenza del nemico, insubordinazione, insulti e vie di fatto verso un superiore. Il soldato fu definito "pericoloso per la società e per l'esercito" e fucilato il 12 maggio 1917.

Le mancanze disciplinari dei soldati che furono freddati dai loro ufficiali non avevano un carattere di particolare gravità: un moto di rabbia, un rifiuto ostinato, un atteggiamento di sfida.
Era sufficiente che l'ufficiale vedesse in un atto di disobbedienza un grave pericolo per la disciplina perché si sentisse legittimato all'uso delle armi.

"Non vado più avanti perché non ne posso più, non vado più avanti aspirante del cazzo" , aveva gridato nel giugno 1917 un soldato durante una marcia verso le prime linee.
Il soldato faceva parte di una pattuglia incaricata di un trasporto di cavalli di Frisia. Il cammino era faticoso e i cavalli si impigliavano continuamente nella vegetazione.
All'altezza della terza linea di resistenza gli uomini in testa alla colonna si fermarono chiedendo qualche minuto di riposo.
Al rifiuto dell'ufficiale esplose la rabbia del soldato, subito soffocata da un colpo partito dalla pistola dell'aspirante.

Alla rivolta i soldati erano indotti dalla profonda stanchezza per la guerra, dal senso della giustizia offeso e dalla disperazione.
Soldati fuggiti dal fronte, una volta tratti in arresto e crollate le speranze di sfuggire a un destino di morte, diedero libero sfogo alla propria rabbia:
"In trincea dovrebbero mandarci tutte le persone che vogliono la continuazione della guerra" ; oppure:
"Fate come faccio io, datevi disertori".
Anche nelle aule dei tribunali talvolta i soldati accusati di reati gravi, rinunciarono a dichiararsi pentiti o a invocare clemenza e vollero manifestare apertamente la propria volontà di ribellione:

Al pubblico dibattimento il P. con la massima disinvoltura e in modo sdegnoso e altero, dichiarò esplicitamente di essersi dato alla latitanza per sottrarsi ai disagi e ai pericoli della guerra e che era sua ferma volontà di fare tutto il possibile per riuscire a emigrare […]. È ora di finirla! Basta con questa guerra, è stato Salandra a volere la guerra e non noi. Vorrei che ci venisse un colpo a tutti gli Ufficiali! .


1.2La ribellione alla disciplina

Gli atti di ribellione alla disciplina che si verificavano in trincea, al momento della partenza o durante le marce di avvicinamento alle prime linee rappresentano una minoranza rispetto alle forme di disobbedienza e di insubordinazione che si verificarono in luoghi lontani dal fronte, nelle caserme o negli accantonamenti;
reazioni impulsive a una disciplina oppressiva e irrispettosa dei bisogni elementari dei singoli.
Oltre ai patimenti della vita di trincea, i soldati non tolleravano di vedere umiliata la propria dignità e annullata la propria identità personale.

Dopo i reati di diserzione, quelli relativi all'indisciplina furono con maggior frequenza discussi nelle aule dei tribunali militari; le condanne, nel complesso 24.601, andarono progressivamente aumentando: da 4.622 nel primo anno di guerra si passò a 6.920 nel secondo, a 10.032 nel terzo .
Soldati che reagirono con una frase irrispettosa o con uno scatto violento agli insulti e ai maltrattamenti da parte degli ufficiali, che si rifiutarono di compiere servizi eccessivamente gravosi, che manifestarono la propria indignazione per una malattia non riconosciuta o una licenza negata.

In molti casi le infrazioni erano di assai lieve entità: anche una semplice "mancanza di deferenza, di educazione civile e militare", come un'alzata di spalle, un tono irriverente, un atteggiamento scomposto, poteva essere considerata un'offesa al superiore e comportare la denuncia al tribunale militare.

Le sentenze che discutono i reati di insubordinazione e rifiuto di obbedienza dimostrano che, nonostante l'indubbio avvicinamento che si verificò nel corso del conflitto tra ufficiali inferiori e soldati, permasero in ampi strati dell'esercito motivi di profonda frattura.
La recente acquisizione del grado, il desiderio di distinguersi e di fare carriera determinarono comportamenti alteri e boriosi in molti ufficiali, insuperbiti dal nuovo smalto sociale acquisito con la divisa.

A questi ufficiali, rapidamente investiti di funzioni di comando, mancavano modelli di comportamento verso i loro sottoposti; i corsi affrettati che si tenevano all'accademia di Modena non offrivano al giovane aspirante alcuna indicazione che lo aiutasse a rapportarsi ai bisogni dei soldati e la capacità di comando veniva identificata con le doti di energia, inflessibilità, risolutezza .

Semplici certezze gerarchiche e preoccupazioni di ordine sociale definirono una struttura di comando rigida e centralizzata, accentuarono la distanza e l'incomunicabilità con i soldati.
I processi nei confronti degli ufficiali per abuso di autorità, che normalmente coinvolsero anche i soldati accusati di indisciplina, sono illuminanti dello stato d'animo di coloro che infransero le regole disciplinari.

Alle offese, alle percosse, alle punizioni ingiuste, molti trovarono difficile non riaffermare il diritto a un trattamento rispettoso e restituirono l'insulto: "lazzarone sarà lei!";
altri rifiutarono di sottoporsi alle punizioni ritenute ingiuste: "mi mandi alla fucilazione, ma i ferri non li metto!"; oppure: "A me non mi lega nessuno nemmeno il Padreterno e non mi comanda nessuno" .

Determinante nel condurre molti soldati all'insubordinazione fu spesso l'atteggiamento arrogante dei giovanissimi ufficiali; soldati non più giovani e con responsabilità familiari si sentivano particolarmente feriti dagli ordini vibrati in tono offensivo, dagli schiaffi, dai colpi di frustino inferti da giovani studenti, nuovi alla vita di guerra.

Sentirsi chiamare "mascalzoni", "animali", "fiacconi", "contadinacci"; subire calci e pugni per non essere stati pronti a mettersi sull'attenti, o a eseguire un lavoro, ad abbottonarsi la giubba, erano offese tanto più brucianti quanto più grande era la differenza di età.
Anche l'alterigia e il senso di superiorità di classe di tanti ufficiali suscitava le reazioni sprezzanti dei soldati. Rimproverato perché stava orinando sulla mulattiera, un soldato rispose: "se non vuol sentir puzzo, vada a Milano, qui siamo in guerra".

Allo schiaffo dell'ufficiale rispose con un pugno e fu condannato a 20 anni.
"Capitano, vattene nei tuoi palazzi invece di fare la guerra, farai molto meglio", gridò un alpino al suo superiore e per questo fu condannato a 16 anni . Molti soldati inoltre non mancarono di rimarcare che i loro ufficiali approfittavano dello stato di guerra per assumere atteggiamenti di tracotanza e di superbia che in tempi normali non sarebbero stati loro consentiti.
"Voi perché siete ufficiali, che cosa vi credete?" ; "Se lo trovassi da borghese non mi degnerei nemmeno di farmi pulire le scarpe da lei" ; e non mancavano le minacce: "Ci vedremo poi da borghese" e anche: "In linea ce la vedremo: gli farò la pelle".

La consapevolezza di non godere di una reale stima faceva sì che molti ufficiali scorgessero risi beffardi nelle espressioni dei loro soldati, udissero borbottii di scherno nell'eco delle loro parole, sospettassero sempre intenzioni di sfida e di minaccia; per imporre la propria autorità ricorrevano alle violenze e alle umiliazioni.

I soldati, d'altra parte, esprimevano la propria insofferenza verso la disciplina e la gerarchia militare e il fastidio per la retorica di guerra con la passività e la scarsa solerzia nell'obbedire alle ingiunzioni di deferenza, quali il saluto alla bandiera o l'assumere posizioni irrigidite sull'attenti di fronte al superiore.
Accadeva che alcuni salutassero tenendo le mani in tasca o la sigaretta tra le labbra o fingessero di non accorgersi della presenza del superiore.
L'insistenza su un comportamento aggressivo sia nei confronti del nemico che della truppa, le raccomandazioni di non esitare a far uso delle armi, il timore della destituzione nella tensione della vita di guerra condussero alcuni ufficiali a stati di vera e propria alterazione mentale, e l'idea della disciplina diventava ossessiva.

In qualche caso il rigore della disciplina provocò proteste collettive.
Un episodio significativo accadde nel giugno 1917 e vide coinvolto un soldato sorpreso a fumare durante il turno di sentinella dal suo giovane tenente. L'ufficiale ordinò che il colpevole fosse legato a un albero. Il soldato incaricato di eseguire l'ordine in un primo momento esitò, poi legò il compagno a un altro albero, all'ombra. La pretesa dell'ufficiale che la punizione venisse scontata al sole, scatenò la protesta:

Evviva la civiltà italiana, evviva la guerra! Dovreste vergognarvi di essere ufficiali. Gente che vuole ammazzare dei soldati che combattono da due anni! Vigliacco, cretino, voialtri ufficiali che volete la guerra, rovinate il soldato!

Applausi, colpi di fucile, urla, ingiurie contro gli ufficiali e la guerra si susseguirono da parte dei soldati e dei graduati; alcuni imbracciarono le armi facendo l'atto di sparare, altri minacciarono di morte l'ufficiale. I tumulti si placarono solo dopo "l'intervento energico di un ufficiale di un altro reparto".
In udienza il superiore fu assolto, i sei soldati condannati a pene comprese tra i 22 e i 24 anni.

Un altro episodio di ribellione collettiva si verificò nell'estate del 1917 tra i soldati del distaccamento di Gargnano. Il capitano che ne aveva il comando, dopo aver percosso con il bastone un soldato, lo fece legare al tavolaccio della cella del carcere dove rimase per molti giorni fino a che i compagni, "protestando in forma di ammutinamento", non lo slegarono.

Se gli ufficiali accusati di abuso di autorità furono in maggioranza assolti, le mancanze dei soldati furono punite, al contrario, con grande severità. Di fronte al supremo dovere di mantenere la disciplina, la dignità del soldato perdeva ogni valore, mentre l'offesa a un ufficiale trascendeva sempre la sua persona per divenire offesa al grado. La percentuale dei condannati per infrazioni alla disciplina fu infatti elevatissima: 79,4% dei giudicati, ben superiore alla media che era di 64,7% .
Anche di fronte alle mancanze più lievi i tribunali vollero riaffermare il principio della disciplina e della inevitabilità della punizione. Il mancato rispetto dei rapporti gerarchici non doveva ricevere attenuanti.


1.3 La diserzione

Il reato di diserzione fu la forma di disobbedienza più diffusa durante il conflitto, il più assillante motivo di preoccupazione per le autorità militari.
L'aumento progressivo del reato è ben esemplificato dal numero delle condanne: da 10.272 condanne per diserzione nel primo anno di guerra si passò a 27.817 nel secondo e a 55.034 nel terzo.
I reati gravi di diserzione (con passaggio al nemico e in presenza del nemico) non furono numerosi e rappresentarono solo il 7,4% di tutti i processi per diserzione.

La rigorosa sorveglianza a ridosso delle linee e nelle retrovie, la difficoltà di nascondersi e raggiungere il paese, le pene severissime scoraggiarono propositi tanto rischiosi.
La maggior parte dei disertori che comparvero davanti ai giudici si era allontanata da luoghi lontani dal fronte; ben 150.429 furono infatti i processi per diserzione all'interno del paese.

Se nel complesso nell'arco dei 4 anni di guerra 1 soldato su 12 subì un processo penale, 1 soldato su 28 subì un processo per diserzione all'interno.
Per arginare il dilagare del reato, si inasprirono le pene e si estese progressivamente la possibilità di comminare la pena di morte.

Nel febbraio 1917 fu emanato un decreto (4 febbraio 1917, n. 187) che estendeva la possibilità di infliggere la pena di morte a coloro che disertavano per la terza volta.
Il 14 agosto un nuovo bando prevedeva la pena di morte per i militari che avessero abbandonato "unità o reparti diretti alla prima linea ovvero che [fossero] in procinto di partire per la prima linea".

Ma i provvedimenti che maggiormente inasprirono la giustizia militare nei confronti dei disertori furono adottati tra la fine del 1917 e l'aprile 1918.
Particolarmente gravi furono le pene previste dal decreto del 21 aprile 1918 (n. 536): per la prima volta la fucilazione poteva essere comminata anche per la diserzione all'interno, nel caso di assenze protratte oltre 30 giorni.
Né ci si limitò a un progressivo aggravamento delle pene per i disertori e i favoreggiatori, furono anche previste ritorsioni nei confronti dei famigliari, come la confisca dei beni e la privazione del sussidio per effetto della sola denuncia.

Quali furono le ragioni che provocarono la rottura del principio di autorità e condussero migliaia di soldati a incorrere in una giustizia sempre più severa? Lo studio di un campione composto di 1.300 soldati giudicati da vari tribunali ci permette di ricostruire motivazioni, modalità ed esiti della diserzione.

In maggioranza i soldati si allontanarono per ragioni familiari (oltre il 64%), le loro assenze furono brevi (il 52% si allontanò per non oltre 10 giorni), seguite da spontaneo rientro (61%).
Si trattava quindi di soldati che non avevano intenzione di abbandonare definitivamente le file dell'esercito e che avevano fino ad allora tenuto buona e ottima condotta.
Soprattutto tra i soldati settentrionali prevalsero le fughe brevissime (da 1 a 3 giorni), motivate dal desiderio di riabbracciare i congiunti prima di partire per il fronte, salutare i fratelli in licenza, o semplicemente immergersi per poche ore nell'atmosfera domestica. "Avevo un gran desiderio di rivedere la famiglia", "non ho avuto la forza di resistere al desiderio di tornare a casa", "desideravo riabbracciare i miei prima di tornare in linea", sono spesso le uniche giustificazioni avanzate.

Sarebbe tuttavia sbagliato considerare queste diserzioni alla stregua di semplici "scappate". Anche quando ebbe breve durata, la diserzione non fu un episodio di scarso rilievo all'interno dell'esperienza di guerra, al contrario. La decisione di disertare avveniva sempre sotto la spinta di una intensa emotività. I soldati vivevano continuamente nell'angoscia di non rivedere più i propri cari, angoscia che si acuiva al momento di lasciare il deposito per il fronte. La lontananza, le lunghe separazioni, l'onnipresenza della morte, potevano creare una condizione ansiosa, a uno stato d'animo dominato dal senso di rovina, di imminente catastrofe. Afferma un soldato di Treviso a giustificazione del suo allontanamento:

Ciò feci per rivedere mia madre avendo l'idea fissa che essa dovesse morire da un momento all'altro. Questa è sempre stata la mia preoccupazione.

In maggioranza i soldati affermarono che salutare e confortare la famiglia, dopo lunghi mesi passati in trincea, non appariva ai loro occhi una mancanza grave, e rifiutarono di essere considerati disertori.

Credo che dopo esser stato quindici mesi a combattere nelle trincee ed essere stato anche ferito combattendo per la patria non si possa ritenermi colpevole di diserzione per il solo fatto di essermi assentato dal posto per soli tre giorni allo scopo di rivedere il mio vecchio padre.

La diserzione, infatti, rappresenta spesso il tentativo di riappropriarsi di piccoli margini di libertà personale, di mantenere vivo il senso della propria dignità, il valore degli affetti e della solidarietà familiare.
Neppure nel rientro spontaneo si deve sempre vedere un segno di accettazione dei propri doveri nonostante tutto, perché la convinzione di aver subito un'ingiustizia è talvolta ancora più acuta in coloro che rientrarono spontaneamente.
Ciò è particolarmente vero per i soldati meridionali. Le loro dichiarazioni rivelano che essi in maggioranza si costituirono perché sopraffatti dal senso di impotenza: non poter raggiungere il paese, non riuscire a nascondersi, non aver più la forza di vivere in condizioni di latitanza. Agli ufficiali istruttori i soldati meridionali parlarono di lunghi viaggi a piedi, di smarrimenti, di giorni trascorsi con ben poco da mangiare, afflitti dal freddo, dalla pioggia e dalle malattie.

Se analizziamo più da vicino le motivazioni familiari avanzate dai disertori, osserviamo che quasi il 28% dichiarò di aver disertato per aiutare la famiglia con il proprio lavoro; tra i soldati meridionali la percentuale sale al 47%. Le dichiarazioni che essi fecero in istruttoria ci riportano alle difficili condizioni di vita all'interno del paese: l'inefficienza della distribuzione alimentare, la scarsità di combustibile, l'irregolarità dei sussidi, la mancanza di lavoro, le disastrose condizioni dell'assistenza medica e delle strutture assistenziali.

A essere colpiti dalle condanne più severe furono i contadini, che rappresentano il gruppo più numeroso del campione, e i soldati con responsabilità familiari , che più degli altri avevano tenuto una condotta esemplare. Agli ufficiali istruttori i soldati vollero sottolineare il proprio passato di obbedienza, l'assenza di punizioni dal proprio foglio matricolare, un "tirare avanti" in cui si erano accumulati sentimenti di umiliazione e di rabbia.
Allo sgomento nel vedere le terre in completo abbandono, i familiari ridotti alla fame, affranti dai lutti e dalla fatica, i figli abbandonati a se stessi, era subentrato il risentimento nei confronti dello Stato che non provvedeva alle famiglie, si era fatta strada la consapevolezza che, con l'aumento dei doveri e delle sofferenze, diminuivano i margini di libertà individuale e al combattente venivano negati i diritti elementari.

La gravità dei motivi che indussero questi soldati ad allontanarsi li trattenne anche a lungo in famiglia. Se, infatti, le diserzioni oltre i tre mesi rappresentano il 14,7% di tutti gli allontanamenti, tra gli agricoltori esse sono ben il 20%.

Molti avevano certamente affrontato la vita di guerra sostenuti dai valori della cultura contadina: perseveranza, laboriosità, rispetto delle gerarchie. I rapporti interni alla comunità contadina, imperniati sulla subordinazione all'autorità della famiglia per la soddisfazione dei bisogni collettivi, avevano favorito l'adattamento alla disciplina.

Fu la mancanza di rispetto per questi valori a provocare l'abbandono di comportamenti ispirati a obbedienza e rassegnazione, che derivavano dall'accettazione dell'autorità.
Come già sostenne Serpieri nel 1930, l'esperienza di guerra risvegliò e acuì sentimenti di avversità antica dei soldati contadini.

Tra gli addetti all'agricoltura, coloro che più soffrirono dello stato di guerra furono i braccianti e i contadini del Sud. In alcune regioni meridionali, in particolare in Puglia, Calabria, Basilicata e Sicilia, gli esoneri furono concessi in misura assai inferiore rispetto alla media nazionale.
Alla fine del settembre 1918, tra i 163.000 esonerati nel settore dell'agricoltura, solo 29.875 appartenevano all'Italia meridionale e alle isole . Se confrontiamo i dati disponibili a livello nazionale relativi alla provenienza regionale dei disertori con quelli relativi agli esoneri agricoli, troviamo una correlazione significativa:
Emilia, Toscana, Marche, Umbria e Sardegna, regioni con una percentuale elevata di esoneri , ebbero un basso tasso di diserzione. Veneto, Lombardia, Lazio, Abruzzo, Campania, Puglia e Calabria, regioni con basse percentuali di esoneri agricoli, presentarono un elevato tasso di diserzione.

Non sorprende, quindi, che molti disertori delle province meridionali avanzassero come motivazione della loro fuga il rifiuto dell'esonero o della licenza agricola. Poiché inoltre i soldati meridionali erano maggiormente esposti al rischio di essere arrestati a causa dalle lunghe distanze che li separavano dalle famiglie, con maggiore frequenza si videro negare le circostanze attenuanti che spesso i collegi concedevano nel caso di rientri spontanei, e furono puniti con maggiore severità.

Un altro importante gruppo di motivazioni (il 30%) ci rimanda alla disciplina e alla vita di guerra. L'autoritarismo brutale e la mancanza di regolarità delle licenze sono motivazioni che emergono con forza dagli interrogatori in istruttoria. Nell'animo dei soldati, cui fu negato di rivedere i parenti in punto di morte, risentimento e indignazione si mutarono in cupo rancore, in un sentimento di odio a stento trattenuto.

Dichiara un contadino napoletano:
Il 15 maggio fuggii dal deposito e viaggiando sempre a piedi arrivai in mia casa verso il 10 di giugno perché, avendo saputo che mio padre era gravemente ammalato e non abbi alcuna licenza. Quando giunsi a casa seppi che mio padre era morto da circa 1 mese. Non sono tornato al deposito per guadagnare da vivere ai miei figli. Fui arrestato il 15 settembre. Non ho altro da dire.

Se nel 1915 e nel 1916 prevalsero i brevi allontanamenti seguiti dai rientri spontanei, a partire dalla primavera 1917 la tendenza si invertì; si protrasse il periodo di assenza e diminuì il numero di coloro che rientrarono spontaneamente.

Alla vigilia della sconfitta militare, l'Ufficio giustizia e disciplina militare così scriveva:
Non si tratta di scappate. Lo attesta la lunga durata della latitanza. Circa 4/5 dei latitanti al 1° ottobre si erano allontanati da più di un mese e fra questi oltre 1/5 da più di un quadrimestre.

La tendenza ad abbandonare definitivamente l'esercito è confermata dall'analisi dei fascicoli di coloro che si ripresentarono entro il 29 dicembre del 1917 in base al decreto che concedeva loro il perdono giudiziario: in maggioranza erano rimasti latitanti per oltre 6 mesi . Anche i rientri spontanei furono sempre più che compensati dai nuovi abbandoni e la situazione, prevedeva il Comando supremo alla fine di ottobre, sarebbe ben presto peggiorata:

È ben vero che si ha un continuo ritorno, spontaneo o forzato, di disertori e che, dei latitanti il primo ottobre, parecchie migliaia saranno nel giro di pochi mesi, recuperati. Ma l'esodo non accenna a scemare; onde i ritorni sono più che compensati dalle nuove diserzioni. Resta pertanto in paese una massa fluttuante, che sei mesi orsono non doveva contare 10.000 uomini, oggi ne conta più del doppio, e probabilmente raddoppierà ancora, in breve tempo, se non si prenderanno seri provvedimenti.

Nonostante l'inasprimento delle pene previste dal decreto dell'aprile 1918, la diserzione non cessò di aumentare; il numero di denunciati per diserzione all'interno raggiunse infatti il picco nel mese di maggio . Nell'ultimo anno di guerra le motivazioni che indussero alla diserzione non mutarono, ma acquisirono nuovo vigore. Le condizioni di vita della popolazione erano andate continuamente peggiorando. Nel corso di oltre tre anni di guerra tutte le famiglie erano state colpite da qualche lutto e le dichiarazioni dei soldati sono una lunga sequela di dolori, perdite, ferite.

Nel 1916 morirono mia madre e mia sorella e non ebbi la licenza. Dopo 27 mesi che non andavo a casa, inviato in licenza, trovai mio padre e sei fratelli piccoli che non avevano di che mangiare, mi misi a lavorare. Sono stato in prima linea 35 mesi, sono stato ferito due volte, non sono mai stato punito e non avrei mancato se non fosse stato per la mia famiglia.

Dopo Caporetto, nuove motivazioni si aggiunsero per i soldati veneti, indotti a disertare dalle preoccupazioni per le famiglie profughe, rimaste nelle zone invase o esposte al tiro delle artiglierie nemiche. In molte zone del paese inoltre, in particolare al Sud e in Sicilia, i disertori decisero di rimanere nella condizione di latitanza per il timore delle pene. Pochi di essi, infatti, vennero a conoscenza in tempo dei provvedimenti che promettevano il perdono giudiziario.

La possibilità di restare a lungo latitanti dipese in primo luogo dall'aiuto che ovunque la popolazione offriva ai disertori; chi abitava in campagna dava informazioni sui movimenti dei carabinieri, incoraggiava i disertori di passaggio, indicando a chi non era pratico dei luoghi la via più sicura per evitare le pattuglie.
Nel Veneto le squadriglie dei carabinieri in qualche occasione dovettero segnalare l'insuccesso delle loro operazioni di pattuglia dovuta "al territorio ostile all'opera dei carabinieri in quanto che largamente vengono protetti i disertori".

Anche in Toscana, regione di passaggio per i disertori diretti a Sud, la popolazione offriva volentieri ospitalità e protezione; lo confermano i rapporti prefettizi di tutte le province della regione. Se la documentazione processuale consente di ricostruire motivazioni ed esiti della diserzione individuale, i rapporti di polizia, mettendo a fuoco le modalità dell'arresto, fanno luce sulla diserzione come fenomeno collettivo: l'organizzazione delle bande, la fitta rete di aiuti e di solidarietà. La protezione che i disertori ottenevano non si limitava al nutrimento e al rifugio, ma anche all'aiuto in caso di arresto. Al grido di "molla, molla!", donne, anziani e ragazzi accorrevano insultando i carabinieri, aggredendoli con roncole e pietre.

Nel settembre 1917 a Stienta presso Rovigo accadde uno dei fatti più gravi. Secondo il resoconto della polizia, 150 donne e 50 uomini si opposero all'arresto di due disertori aggredendo due carabinieri e gettandoli nel canale Bentivoglio dove un carabiniere annegò.

Nonostante il diffuso aiuto della popolazione, la sopravvivenza durante la latitanza era sempre estremamente difficile e neppure le famiglie riuscivano a provvedere al sostentamento del congiunto, a nasconderlo e a difenderlo. Molti quindi sceglievano di vivere alla macchia, organizzati in bande armate per affrontare i carabinieri, dedicandosi saltuariamente al furto e alla rapina per procurarsi cibo e armi. Bande organizzate di disertori furono segnalate in molte province, specialmente nei luoghi boscosi, lungo gli Appennini, nelle zolfare abbandonate e dovunque si potesse contare su un nascondiglio sicuro.

Non c'è prefetto che nel 1917 e nel 1918 non segnali scontri a fuoco tra disertori e carabinieri. Nell'ultimo anno di guerra i disertori riuniti in bande dimostrarono un'audacia e una risolutezza senza precedenti: aperta sfida alle forze dell'ordine, furti e minacce nei confronti dei possidenti, atti di vendetta nei confronti degli amministratori comunali ritenuti i diretti responsabili delle ritorsioni sulle famiglie. Nel febbraio 1918 nel comune di Prun, presso Verona, un gruppo di disertori fece esplodere una bomba nei pressi della casa dei segretario comunale. Sul posto fu rinvenuta una cartolina:

Siamo venuti ad augurare la buona pasqua. La prego di farsi accorto e di disporre meglio per l'avvenire. Questo è l'avviso e tra breve avrà il termine. Arrivederci.

Verso la fine del conflitto manifestazioni aperte di rabbia e di ribellione accompagnate da un esplicito desiderio di vendetta erano un chiaro preludio delle lotte del dopoguerra.


1.4 Il "vivi e lascia vivere"

Se gli atti di aperta ribellione, la fuga dal fronte o il rifiuto di rientrare dalle licenze erano forme di disobbedienza che raramente poterono sfuggire alla giustizia militare, le intese con il nemico, le tregue informali, i comportamenti volti a ostacolare la strategia della continua tensione, riuscirono spesso a sottrarsi al controllo dei superiori.
Lo conferma la documentazione processuale; dalle sentenze che discussero i reati di agevolazione colposa del nemico e, nel caso degli ufficiali, di mancata sorveglianza sulle truppe emerge che intese, contatti, scambi erano prassi consuete, durate a lungo prima di venire alla luce.

Fin dai primi mesi di guerra, nonostante l'immagine diffusa dalla propaganda di un nemico barbaro e crudele, non erano rari su tutti i fronti gesti di avvicinamento tra combattenti delle opposte trincee. Quando la neve, la pioggia, il fango, i cadaveri insepolti esaurivano le energie dei soldati e allentavano il ritmo dell'aggressione quotidiana, la vicinanza e la curiosità favorivano i dialoghi e gli scambi di saluti.

Che aspetto aveva il nemico? Qual era il suo stato d'animo? Quali sentimenti nutriva verso la guerra? Come affrontava le miserie e i disagi della vita di trincea? A poco a poco, in maniera imprecisa, si faceva strada la consapevolezza di condividere con gli uomini della opposta trincea la stessa condizione di isolamento ed estraniazione, affiorava un vago sentimento di solidarietà, un desiderio di conoscere come i nemici vivevano le stesse esperienze estreme.

Bastavano fuggevoli contatti per scoprire di aver avuto a lungo una immagine astratta dei nemici; essi apparivano ugualmente affamati, laceri e affranti, nutrivano lo stesso desiderio di pace e di riposo, provavano lo stesso senso di pietà per i feriti. Nelle lettere, nelle memorie gli episodi di fraternizzazione sono sempre descritti con grande intensità emotiva.

In una ricognizione di pattuglia eseguita la notte della Vigilia di Natale potetti acciuffare una dozzina di austriaci che placidamente dormivano in una grotta [...]. Ebbene detti soldati non erano uomini, ma scheletri, non mangiavano da due giorni per mancanza di pane. Intanto i miei soldati con sollecitudine offrirono loro delle pagnotte e alla vista di quel ben di Dio per loro, allegri presero la via delle nostre linee. Non dimenticherò mai in vita mia quei baci ricevuti dai nostri nemici.

In alcune memorie di guerra, accanto alla sensazione di condividere con gli uomini delle opposte trincee le stesse condizioni di vita e lo stesso destino, affiora talvolta una percezione più profonda: se fosse stato possibile prolungare quei momenti, soffermarsi sui sentimenti di condivisione, l'aggressione non sarebbe stata più possibile.

Tregue e fraternizzazioni generalmente prendevano il via da circostanze eccezionali, ebbero vita breve e vennero immediatamente soffocate. Il desiderio di pace e di sottrarsi all'aggressione quotidiana si espresse nel corso del conflitto in forme sempre meno esplicite e aperte; in seguito ai provvedimenti repressivi i soldati impararono a comunicare indirettamente o in modo meno visibile.

Si concordarono sistemi per segnalare imminenti aggressioni da parte della propria artiglieria: i soldati inviavano messaggi innalzando cartelli, gli ufficiali avvertivano le truppe che giungevano a dare il cambio dell'esistenza di taciti accordi di non aggressione. Un esempio è offerto dal procedimento giudiziario nei confronti di un capitano, denunciato dal suo comandante per non aver ordinato di far fuoco su alcuni austriaci intenti a lavori di rafforzamento delle proprie difese. Si imputava inoltre al capitano di aver tranquillamente attraversato un posto di vedetta austriaco e di non essersi curato di controllare lo stato di efficienza dei reticolati, tanto che due soldati nel marzo 1917 avevano disertato passando al nemico. Il capitano in istruttoria dichiarò di essere convinto che nel suo settore vigesse "per mutuo accordo la consuetudine di non sparare".

Inoltre affermò che sia il capitano del 225° fanteria, al quale dette il cambio, sia i capitani […] del 144° lo avevano informato che in quel settore regnava da gran tempo la massima calma, fino al punto che lo sparo di un sol colpo di fucile sarebbe stato considerato come un allarme.

Talvolta le tregue prendevano avvio dalla consuetudine di cessare i tiri di fucileria e di artiglieria durante l'ora del pranzo o in occasione degli armistizi informali concordati dai rispettivi ufficiali per seppellire i morti. L'impegno a non dare inizio all'aggressione diveniva una norma morale e il rispetto della tregua assumeva un valore di difesa psichica. Durante il tempo sottratto all'aggressione, ci si liberava dalla continua tensione e dalla paura, si conversava, si scriveva a casa e gli animi si allontanavano dalla guerra. Avvicinamenti al nemico, scambi di cibo, tabacco e saluti infatti erano spesso avviati con lo scopo semplice, ma psicologicamente e moralmente rassicurante, di non permettere alla guerra di brutalizzare gli animi, di travolgere ogni valore umano. La loro risonanza emotiva tuttavia andava ben presto al di là: diffondeva la consapevolezza di un comune sentire e rafforzava la speranza di poter riprendere il controllo sulla propria esistenza.

Oltre alle tregue informali, numerosi furono gli episodi di resistenza alla continua pressione per un comportamento aggressivo esercitata dai comandi nei periodi che intercorrevano tra le grandi offensive. L'esperienza bellica di molti combattenti infatti non si esaurì in grandi azioni su vasta scala, ma si realizzò in una quotidianità fatta di continui attacchi su brevi tratti di fronte, azioni dimostrative, ricognizioni, servizi di pattuglia, incursioni che nel corso del conflitto vennero progressivamente incoraggiate, imposte e controllate, al fine di mantenere nelle truppe un elevato spirito aggressivo, tenere in allarme l'avversario ed esaurire le sue capacità di resistenza.

Molti ufficiali tuttavia disapprovavano le modalità di conduzione della guerra; il pensiero di essere corresponsabili del massacro era per loro un continuo tormento ed essi cercarono di sottrarsi alle azioni di disturbo, che innescavano un meccanismo incontrollabile di ritorsioni. Capitani e tenenti simulavano attacchi e stendevano falsi rapporti, si stabilivano tacitamente alcune regole di convivenza evitando il cecchinaggio indiscriminato o ricorrendo alla ritualizzazione della violenza: si colpivano sempre gli stessi punti e alla stessa ora, rendendo così prevedibile ed evitabile il danno dell'aggressione.

Facevo parte di una sezione mitragliatrici; la quale durante tutta la mia permanenza, durata più di un mese, non aveva mai preso parte ad azioni né aveva ricevuto perdite o molestie in genere dal nemico. […] Il fuoco nemico non ha mai prodotto danno alla mia sezione […], non ho mai visto un morto o un ferito. I proiettili nemici passavano oltre il luogo in cui mi trovavo e andavano a colpire la terza linea.

Nel servizio di pattuglia, un modo per sottrarsi allo scontro, specialmente di notte, consisteva nell'avanzare per pochi metri per poi percorrere un tratto vicino alle proprie linee alla ricerca di un nascondiglio . I piccoli nuclei di uomini che si nascondevano eludendo il contatto con il nemico dovevano contare sulla complicità del loro ufficiale. Le tregue informali, gli avvicinamenti al nemico, le forme di resistenza all'aggressione non vanno dunque interpretate come il segno di passività di una fanteria stanca ed esasperata o come l'espressione del puro istinto di sopravvivenza, ma come una forma di resistenza attiva, collettiva e consapevole, sostenuta da sentimenti di rabbia e risentimento.

La guerra l'avevamo mica voluta né loro né noi: che venissero a farla quei siori che l'avevano voluta […]. Ci rispettavamo ma da furbi. Il mio amico della 54° aveva combinato tutto lui, che parlava bene il germanico: "Guarda che lui, il tedesco di sentinella, ogni tanto deve farsi sentire dai suoi ufficiali a sparare e anche a gettare delle bombe. Però, quando è il momento, farà un segno con la sigaretta. Voi - diceva ai nostri che andavano fuori all'avamposto - appena vedete la brace a muoversi vi dovete inquattare e stare sotto bene, perché vuol dire che sta per sparare".

Il "vivi e lascia vivere" certamente non riuscì a mutare il corso di un conflitto che travolse tante vite. Bastava l'intervento di un solo uomo, un nuovo arrivato o un ufficiale con funzioni ispettive, per distruggere le intese di molti e innescare nuovamente la spirale dell'aggressione. Nell'estrema incertezza che colpiva la vita, e nel clima stesso della trincea, sottrarsi alla violenza era estremamente difficile. Nell'immobilità, nelle condizioni di tensione continua, le manifestazioni aggressive assumevano una funzione liberatoria. Gli stessi sentimenti di affetto che si sviluppavano spontaneamente tra i combattenti alimentavano nel contempo odio e desiderio di vendetta verso il nemico, responsabile della morte dei compagni.

Nei confronti del nemico sentimenti di odio, di vendetta, di pietà e simpatia si alternavano tragicamente nel corso della guerra; tuttavia la violenza indiscriminata, così come la conduzione ostinatamente aggressiva della guerra, ebbero la disapprovazione collettiva. Il risentimento verso i comandi per l'inutilità dei sacrifici portò a vedere nei nemici le vittime dello stesso processo che sovvertiva tutti i valori umani; con atti di disobbedienza individuale e collettiva soldati e ufficiali tentarono di ritrovare e difendere il senso dell'esistenza e della dignità umana anche di fronte alla possibilità della morte.


2. Gli ufficiali

2.1 sentenze e condanne

Nel corso del conflitto molti sono gli indizi di un diffuso disagio tra gli ufficiali, particolarmente tra quelli di complemento, un disagio che tuttavia non si riflette appieno nei dati di cui disponiamo sull'andamento della giustizia militare.
Nel complesso, infatti, il numero dei processi nei confronti degli ufficiali appare molto esiguo (2.680) se paragonato a quello dei processi che ebbero come imputati i soldati (289.343). Se il 6% dei soldati incorse in un processo penale, solo l'1,3% di tutti gli ufficiali mobilitati nel corso del conflitto comparve di fronte ai giudici e lo 0,5% fu condannato.

L'analisi dei fascicoli processuali degli ufficiali rivela tuttavia che il minor numero di deferiti trova la sua spiegazione nella riluttanza dei comandi a ricorrere alla denuncia; anche mancanze di una certa gravità si conclusero con un semplice richiamo disciplinare. Esemplare a questo proposito la documentazione processuale per diserzione all'interno, il reato più diffuso anche tra gli ufficiali.

Negli interrogatori, gli imputati e i loro superiori dichiararono con frequenza che brevi allontanamenti per ragioni familiari erano consueti, considerati una prassi lecita o punita al massimo con un rimprovero e non mancarono casi in cui gli stessi giudici deplorarono apertamente l'eccessiva solerzia nel denunciare ufficiali per le loro brevi assenze.

Giustificato motivo, buona fede, intenzione di ritornare, qualità personali e condizione sociale vennero invocate per dichiarare l'inesistenza di reato. Nel caso degli ufficiali i giudici non si attennero rigorosamente al dettato della norma del codice militare che definiva il reato di diserzione un reato formale in cui l'intenzionalità doveva essere considerata insita nel fatto materiale compiuto.

Mentre nei confronti dei soldati la tendenza prevalente dei collegi giudicanti fu quella di infondere il senso della ineluttabilità della punizione, nei confronti degli ufficiali la preoccupazione maggiore fu quella di minimizzare e occultare, in particolare le mancanze dei singoli, le infrazioni alla disciplina che non coinvolgevano i soldati. Una tendenza generale, comune alla gran parte dei tribunali, in maniera più o meno accentuata, lungo tutto il corso del conflitto e verso la maggioranza dei reati. L'espediente più diffuso per attenuare le responsabilità degli ufficiali fu il ricorso alla infermità o alla seminfermità mentale.

Le esperienze di guerra, le privazioni, la continua tensione della vita di trincea erano considerati dai consulenti psichiatri assai più logoranti per gli ufficiali, sia per il loro maggior grado di cultura e maggiore sensibilità rispetto ai semplici soldati, sia per il maggior peso della responsabilità che essi dovevano sostenere. Molti ufficiali, imputati di diserzione in presenza del nemico o abbandono di comando, furono prosciolti in istruttoria oppure ottennero pene grandemente diminuite. Lo spoglio dei fascicoli processuali infatti rivela che al 67% degli ufficiali condannati per i reati più gravi quali l'abbandono di comando, la resa e lo sbandamento, che prevedevano la condanna a morte, furono inflitte pene che non superarono i 7 anni.

Non si deve tuttavia dimenticare che alcuni ufficiali inferiori rimasero vittime di esecuzioni sommarie e furono abbattuti dai plotoni di esecuzione . Tre furono le condanne a morte eseguite, su 20 condanne alla fucilazione comminate nel complesso, di cui resta traccia tra la documentazione processuale.
Un numero a prima vista esiguo e tuttavia proporzionalmente più elevato rispetto a quello che si riscontra negli eserciti alleati, se si considera il maggior numero dei mobilitati.
È significativo che coloro che furono passati per le armi appartenessero al grado più basso dell'ufficialità, tutti aspiranti giovanissimi, tra i quali uno di soli 19 anni. Le esecuzioni, che ebbero luogo tra l'ottobre e il novembre 1917, erano volte a dimostrare che la giustizia militare, nei momenti più difficili per l'esercito, sapeva essere severa anche nei confronti degli ufficiali.


2.2 L'opposizione alla conduzione della guerra

Gran parte dei reati commessi dagli ufficiali che raggiunsero le aule dei tribunali ci rimandano alla modalità di conduzione delle azioni belliche. Il principio dell'offensiva a oltranza, la convinzione che l'azione offensiva "fosse solo un problema di superiorità numerica e di disciplina delle unità e dei singoli" , oltre a esporre gli eserciti a perdite enormi, inasprì progressivamente la repressione. La perdita di una piccola quota di terreno o di un breve tratto di trincea, il manifestare dubbi sulla possibilità di riuscita di un'azione, potevano condurre all'esonero o al deferimento al tribunale.

I brutali sistemi di comando, le decimazioni, l'obbligo di eseguire azioni impossibili, di imporre una disciplina feroce, non potevano nel corso di un conflitto tanto sanguinoso non incontrare la resistenza e l'aperta opposizione di molti ufficiali intermedi e inferiori che si trovavano a diretto contatto con la truppa .
Il disagio degli ufficiali rispetto al proprio ruolo si coglie con immediatezza analizzando le sentenze emesse per reati di codardia, resa e sbandamento, negligenza, inesecuzione di ordini.

Dalla ricostruzione delle circostanze dei reati risulta che si trattò di ufficiali che si opposero al modo di decidere e condurre le operazioni e si rifiutarono di esporre i soldati a morte sicura, che considerarono impossibile la resistenza, che denunciarono le perdite dovute ai tiri corti delle artiglierie italiane, la stanchezza dei soldati, la mancanza di viveri, rifornimenti, rinforzi; ufficiali che non si sentivano in grado di affrontare il combattimento, perché non conoscevano né il terreno, né i loro soldati.

Tra gli imputati, numerosi furono gli ufficiali professionali di grado elevato , maggiori, colonnelli, tenenti colonnelli che si allontanarono perché si sentivano incapaci di assumere il comando in una guerra che non erano preparati ad affrontare, e che vissero con disperazione e con vergogna le proprie mancanze. Sono casi che si rinvengono soprattutto nel primo anno di guerra. Un drammatico esempio risale al 1915 e riguarda un maggiore; aveva il compito, con quattro compagnie, di occupare la collina del Ravelnik presso Plezzo, obiettivo da raggiungersi a costo di qualunque perdita.

La prima compagnia si slanciò oltre i reticolati e rimase uccisa, distrutta, ferita, la quarta compagnia restò nel fosso antistante il reticolato, battuta dal fuoco nemico, e anche le altre subirono perdite enormi e si sbandarono.

Il maggiore si nascose in un fosso senza dirigere l'azione. Denunciato, si uccise prima dell'inizio del processo. Nel 1915 e nel 1916 la tendenza dei tribunali fu quella di assolvere e far ricadere sugli alti comandi, sugli ordini incerti che emanavano e sulla scarsa preparazione delle azioni, le maggiori responsabilità. Negli ultimi due anni di guerra parole di aperta critica al modo di condurre le operazioni sono assai più rare; il progressivo inasprimento disciplinare, i continui inviti alla durezza, la sequela di proteste per le sentenze assolutorie irrigidirono l'atteggiamento dei collegi anche nei confronti degli ufficiali.

Come abbiamo detto sopra, con maggiore severità furono trattati gli ufficiali inferiori che avevano disobbedito agli ordini, si erano sottratti con i loro uomini a un servizio di pattuglia, avevano pronunciato frasi di aperto dissenso o avevano solidarizzato con i soldati. A 7 anni di carcere militare fu condannato un sottotenente che nell'aprile 1918 si compiacque dell'aumento dei casi di malattia nel suo plotone e affermò che, se si fossero dati tutti per malati, avrebbero necessariamente ottenuto il cambio che spettava loro.

A vent'anni fu condannato un tenente di Sassari nel gennaio del 1918 perché a Col Beretta aveva tentato di fermare un sergente che cercava di radunare gli sbandati gridando:
"sergente, lei vuole portare questi uomini al macello!".
"No, a lei non obbedisco più, lei ammazza i nostri soldati", inveì un giovane ufficiale contro il suo superiore denunciando i tiri corti dell'artiglieria italiana.

Lo sdegno per l'incompetenza, l'arroganza, l'ambizione, il disprezzo per la vita dei soldati si accompagnava a un crescente senso di disagio nei confronti del proprio ruolo e talvolta all'esplicito rifiuto di condividere le responsabilità della conduzione della guerra.

Scrive nell'agosto 1916 un giovane tenente di Trapani:
Il maggiore è irresponsabile e manda al macello i bersaglieri. E sai, si parla di un nuovo attacco; io, come avevo già deciso, per la mattina del 16 dovrei farmi ammazzare, ma non porterei i miei bersaglieri al macello ignobile.

Casi di ufficiali denunciati per aver dichiarato di condividere il malcontento dei soldati si fecero sempre più frequenti nel corso degli anni successivi.

Io parlerò ai soldati e dirò che nessuno alla prossima azione dovrà uscire dalle trincee se prima non vedrà andare avanti tutti quelli che ordinano l'avanzata. La nuova azione è fatta per il capriccio dei capi, perché molti interessi sono in gioco.
Che razza di esercito è quello italiano dove uomini maturi di 32 anni debbono sottostare a giovanotti senza esperienza e dove non è permessa la libertà di parola e cose tanto importanti quali le azioni, vengono intraprese così alla cieca senza essere state prima ampiamente discusse?

Nel settembre 1917 comparve di fronte ai giudici militari un aspirante che nei locali della mensa ufficiali, il luogo in cui molti di loro si abbandonavano alle dichiarazioni più infervorate, aveva affermato di condividere lo stato d'animo dei soldati aggiungendo che, in caso di ammutinamento o di rivolta o altre manifestazioni di indisciplina, non solo non sarebbe intervenuto, ma si sarebbe posto alla testa della ribellione con la rivoltella in pugno.


2.3 Connivenza in rivolta e disfattismo

La riluttanza a intervenire con la violenza per reprimere una protesta collettiva si riflette nell'aumento dei processi per mancata repressione di ammutinamento.
La maggior parte degli ufficiali deferiti ai tribunali militari per mancata repressione di rivolta furono accusati di aver esitato a far intervenire i carabinieri o di aver esplicitamente rifiutato il loro intervento, di non aver sparato loro stessi sui soldati, di non aver isolato i colpevoli, di avere accolto la richiesta dei soldati di parlare con il comandante di battaglione o di brigata.

Nella maggioranza dei casi i processi per mancata repressione di rivolta si conclusero con l'assoluzione; i tribunali riconobbero che gli ufficiali non avevano fatto uso delle armi per ragioni di opportunità o prestarono fede alle dichiarazioni degli accusati di aver fatto tutto quanto era in loro potere per far tornare la calma nei reparti che si erano ribellati. Tuttavia non mancarono coloro che tennero un atteggiamento reticente durante le udienze , non spiegarono in alcun modo il proprio mancato intervento nel corso di proteste e ribellioni o esplicitamente dichiararono di non aver voluto far ricorso alle armi e perciò furono accusati di connivenza con i soldati e condannati.

La condanna più grave: 3 anni, ovvero il massimo della pena prevista dal codice, fu inflitta a un capitano che si era rifiutato di costringere i suoi soldati ad avviarsi alle trincee sul S. Michele. I soldati, tra cui alcuni ammalati, si erano dimostrati "esitanti", altri "piangenti e disperati", sicuri di essere mandati a morte certa a causa della loro inferiorità numerica.
Ma è l'analisi della corrispondenza censurata a restituirci con immediatezza lo stato d'animo di tanti ufficiali nell'ultimo anno di guerra. Disillusione, disgusto, rabbia e desiderio di ribellione aperta prorompono dalle loro lettere.

Scrive il 23 luglio 1917 un sottotenente di 20 anni:
Del grado me ne infischio perché ormai odio talmente la vita militare che tutto ciò che ha odore di disciplina e di militarismo mi fa nausea. […] Ora dopo due anni di fatiche, di rabbie, di sacrifici non ricompensati griderei: Viva la rivoluzione! Abbiamo l'Emilia e la Romagna che bollono! A Milano si lavora sott'acqua. I disertori aumentano ogni giorno. Gli ammutinamenti e le rivolte nei reggimenti sono frequenti ogni giorno più!

Dopo Caporetto molti ufficiali furono mandati sotto processo per disfattismo. Nelle osterie, alla mensa, nelle sale d'aspetto delle stazioni ferroviarie furono colte dai colleghi o dai passanti frasi di aperta soddisfazione per la sconfitta militare.
"Ma sì!, lasciate pure che vengano i tedeschi! Almeno quando saranno a Padova avremo la pace".

Le condanne furono inflitte con grande discrezionalità: da 1 a 10 anni, e in un caso i giudici vollero individuare nelle parole di un giovane ufficiale il reato di tradimento; si tratta di una delle tre condanne a morte eseguite di cui ho trovato traccia tra la documentazione processuale.

Il 6 novembre 1917, mentre si trovava con altri colleghi alla mensa ufficiali, aveva affermato:
"ma vengano pure anche i tedeschi!", aggiungendo quindi che la guerra era "ingiusta", che l'esercito italiano si trovava in condizioni di assoluta inferiorità, "che aveva piacere che l'esercito nemico si trovasse nel territorio nazionale e che il suo desiderio era questo:
che gli austro-tedeschi arrivassero alle porte di Milano e nel cuore della Patria in modo da costringerla alla pace a duri patti".

Il giovane, nato ad Altona, apparteneva a famiglia originaria di Piacenza emigrata in Germania e aveva lavorato come cameriere sui piroscafi diretti da Amburgo in America. Benché all'inizio delle ostilità fosse ritornato in Italia per arruolarsi, non fu considerato meritevole delle circostanze attenuanti perché le sue affermazioni furono proferite in un momento di "ansioso raccoglimento", quando la ritirata sul Piave non era ancora terminata; la condanna fu eseguita all'alba del 12 dicembre 1917 .

Una condanna esemplare, una volontà di colpire le espressioni di una ostilità alla guerra che si sapeva diffusa tra gli ufficiali di complemento e che, nel corso del 1918, non si andò attenuando. Ne era ben consapevole il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando che nell'aprile del 1918 così scrisse ad Armando Diaz:

[…] un pensiero che io ho sempre avuto e che ho manifestato anche all'E. V. [è] che, se e in quanto nel nostro esercito vi siano delle deficienze di morale, esse debbono ricercarsi assai più nell'ufficialità di complemento che nei soldati.

Nelle lettere scritte nell'ultimo anno di guerra si rinvengono i toni più esasperati, le espressioni di rancore più violente:

P---- Dio, fanno bene a dare il pane ammuffito così finirà presto la guerra! E io ho piacere, popolo cornuto e bastonato, vuoi continuare a fare la guerra? Ma ribellatevi, uccidete tutti gli ufficiali e che sia finita!
IMMAGINI


caserma
Campellio




Venerocolo
1917




lago di campo
2001




Adamello
1978




Laghetto d'Avio in inverno


Avio


Corno Bianco e Adamello


laghi vuoti aprile 1997


laghi di Venerocolo e Pantno


Rifugio Garibaldi


lago del Venerocolo


diga di Pantano (lato monte)


lago di Pantano


lago Pantano vuoto 1994


da Pantano: Val d'Avio 1985


da Venerocolo: Val d'Avio


casine di mezzo viste verso valle


baita Adamé


Baita Adamé


Santella Mario Nolaschi


valle Adamé


le Levade


Venerocolo e passo del lunedì


da Venerocolo a Pantano


dicembre'86:Benedetto e Avio


da cima Plem 1995


da punta Venerocolo: pian di neve agosto 2000


dicembre 1988:Benedetto e Avio


estate 1995: Benedetto e Avio


estate 1995: Benedetto e Avio


estate 1995: Benedetto e Avio


estate 1995: Benedetto e Avio


estate 1995: Benedetto e Avio


Benedetto e Avio


Benedetto e Avio


Benedetto e Avio


diga Avio


Benedetto e Avio


diga Benedetto


Venerocolo


Adamello 1994


Venerocolo
1917




lago di campo
2001




cresta
croce




Adamello
1978




lago di campo
2001




mortaio
149 G




"cagnari"
1915-18




lago di campo
2001




Adamello
1978




"conducenti"
1915-18



bivacco
Giannantonj



re di Castello


lago Dosazzo


malga Macesso di sotto


re di Castello


alla malga Dosazzo


malga Macesso di sopra


Adamello
1983




passo
Salarno



passo
Salarno



val di fumo
1980



Adamello
1984



lago di campo
2001




Valsaviore Val Malga Val Paghera Val d'Avio

sentiero degli invasi idroelettrici

Centrale di Edolo



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Last updated 7.10.2007